Selecciona una palabra y presiona la tecla d para obtener su definición.



––––––––   137   ––––––––


ArribaAbajo

Anton Espadaler, Una reina per a Curial


G.E. SANSONE


Quaderns de Crema, Barcelona, 1984, pp. 252


L’apparizione di un intero volume dedicato a un’opera del rilievo e della bellezza del Curial e Güelfa -ed è il caso di dire finalmente! - non poteva non rappresentare un’assai lieta sorpresa per tutti coloro (e non sono certo pochi) che amano questo gioiello della letteratura catalana medievale. E subito la sorpresa doveva tramutarsi in curiosità e attesa di chissàikkkk quali ghiotte novità al leggere un passo della Premessa: “Així i tot, els problemes de base subsistien. ¿De què serveix repetir allò que s’havia dit com a probabilitat sobre l’autor i la data de composició, o especular sense cap protecció mentre hi havia la possibilitat de trobar noves dades a partir de punts segurs que no s’havien explorat mai? ¿De què serveix saber que l’autor coneixia Boccaccio, si no ens preguntem seriosament per què i com l’utilitza, i en el conjunt de quin projecte narratiu? ¿De què serveix posar en relleu les troballes estilístiques del Curial, mentre es perpetua la més absoluta de les confusions quant al gènere en què s’insereix el llibre?”.

Perché nascondere l’acceso interesse previo all’idea che vi fossero infine “noves dades” sul romanzo, nuovi dati “segurs”; un esame serio (“seriosament”) dell’utilizzazione di Boccaccio (e forse anche di Dante e di altri autori italiani; e forse anche di scrittori non italiani); un attento scrutinio del progetto narrativo, ovvero una approfondita lettura sotto il profilo letterario; una scrupolosa analisi dei ricorsi stilistici, magari, sul fondamento di più esigenti spogli linguistici e grammaticali da una parte e, dall’altra, con più particolareggiata illustrazione della relazione con la lingua cancelleresca? E se anche una leggera perplessità poteva cogliere in ordine al genere letterario, in verità non preda del caos, ciò non aveva gran peso sul clima di fiduciosa e incuriosita attesa verso un volume che, in apertura, promette tanto.

Il quale volume, in tutta la prima parte (pp. 16-116; la seconda è dedicata al problema letterario), sottopone a giudizio le proposte avanzate finora circa la paternità del testo (“autoria” per poi concludersi con un’inedita e originale formulazione alle pp. 117-48. Nelle prime cento pagine, pertanto, vengono escusse, nell’ordine, l’ipotesi “alfonsina”, quella “urgellista”, l’altra “borgognona” e, da ultima, la “valenciana”. E certo, in linea ancora generale, ingenera un certo stupore che venga attribuito lo spessore di vere e proprie ‘tesi’, cioè di proposte puntigliosament argomentate, a ciò che per lo più, era stato presentato come cauto sospetto, prudente induzione, problematica impressione -a volte in forma addirittura marginale; in definitiva, ipotesi pressoché sempre del tutto provvisorie. E provvisorie, caute, prudenti (e, ripeto, spesso marginali) proprio perché, se da una parte l’unico documento su cui

––––––––   138   ––––––––

fondarsi è il solo romanzo (il che non è molto, considerato il tipo di testo), dall’altra, esso include coordinate culturali di tal fatta da consentire e contraddire al medesimo tempo, e perciò tali da non fornire punti di riferimento di assodata e univoca certezza.

E invece l’E. istituisce, caso per caso, dei veri e propri processi, in alcuni passi degni della più illustre tradizione della Inquisizione, tanto sotto il profilo della capziosità come sotto qüello dell’aggressività, ovviamente amplificando all’eccesso e indebitamente quel che i suoi malcapitati predecessori avevano -talora timidamente, sempre circospettamente- proposto. Ma, naturalmente, anche questa dilatazione sofistica delle opinioni altrui avrebbe potuto essere tollerata, se alle impressioni si fossero opposti dati corposi, alle suggestioni fatti oggettivi, alle ipotesi elementi concretamente accertati.

Il sistema, invece, è quello di contrapporre opinione (opinabile) a opinione (opinabile), congetture a congetture, sempre né più né meno discutibili delle altre, ma con il sovrapprezzo di un’intolleranza francamente sproporzionata. Certo, non, ingannerà nessun lettore oggettivo l’affastellamento spesso incoerente e raccogliticcio di bibliografia utilizzata in modo approssimativo: tanto più che i molti “pensem que”, sulla base dei quali l’E. polemizza, tradiscono la debolezza intrinseca di un argomentare in cui causidicità e malagrazia si sposano perfettamente. Tanto si è che, nel complesso, si ha la netta sensazione di una sorta di superfetazione così abnorme, da indurre a chiedersi se non si tratti di un perverso meccanismo mentale messo in moto per convincersi della giustezza di una propria opinione di cui s’avverte sotterraneamente la completa fragilità.

Bastino pochi esempi, fra gli infiniti (tutti?) che potrebbero addursi. E’ ben noto il problema che pone il primo attacco del testo, dopo il brevissimo prologo: “Fonch ja ha lonch temps segons yo he legit en Cathalunya un gentil hom [lacuna] apellat”. A prescindere dal fatto che l’E. in questa sola citazione dal codice piazza due errori (long per lonch, jo per yo, la sua citazione si ferma a Cathalunya e quindi non informa della lacuna), egli, da una parte fa dire ad Aramon (che scrive: “Cathalunya sembla afegit d’una mà posterior”, ed. del testo, III, 259: ed ha ragione Aramon a dire “sembla”, perché non sono affatto pacifici né l’inserimento né la mano posteriore) quel che in fin fine Aramon non dice (cfr. p. 20); dall’altra, salta a piè pari il problema dell’interpunzione, già affacciato da Miquel i Planas (ed. del testo, p. 481), che è assolutamente determinante; infine, se ne esce con l’affermazione che, essendo per lui “inadmissible” quel Cathalunya (su motivazioni barcollanti e confuse), li doveva esserci -el titol del llibre o el nom de l’autor d’on va treure la matèria de la narració” (p. 21): il che è certo quanto di più spericolatamente gratuito e cervellotico si possa immaginare. E se insorgesse il quesito del perché, esso è presto risolto dicendo che l’E. ha deciso essere del tutto anomalo il fatto che il Curial risulti privo sia di dedica, sia di firma d’autore.

Per quel che concerne la questione, per altro abbastanza scontata e documentabile (come s’è fatto in modo pacifico), della conoscenza da parte dell’anonimo di cultura e cose napoletane e italiane in epoca alfonsina, l’E. s’ingegna di addurre altra documentazione: e di questo tipo. Nel Curial (III, 27) si cita un cavaliere partenopeo, “Arrigueto Capete”. Orbene, dato per scontato che questa sia la forma “catalanitzada del cognom Capece” (p. 28), il che resta da provare (o non si tratterà di un banale -c- per -t- del ms.?), si scavano personaggi di un paio di secoli prima ricorrendo, non allo storiografo della famiglia (il Capecelatro), ma alla mezza colonna nientemeno che dell’Enciclopedia italiana. Parimenti, le ipotesi formulate a p. 31 in rapporto al men che mediocre versificatore G. A. Pandone, il quale “podia haver romàs en la memòria de l’autor”, risultano fantomatiche, tanto più quando si vorrebbe

––––––––   139   ––––––––

attribuire a questa “memòria” l’intero impianto erudito che informa il III libro del romanzo: il che significa, se non altro, ridurre la cultura dell’anonimo, ben sfoggiata, a una fonte davvero minima e inconsueta.

La conclusione di questo capitolo è dedicata al compianto Comas con toni alquanto arroganti. E poiché qui si agisce secondo un sistema ricorrente in tutto il libro, converrà sottolineare (e valga il caso specifico per la generalità del casi): a) che Comas aveva prospettato un suo tipo di lettura non solo nella piena legittimità di critico attento ed equilibrato, ma anche con un garbo che impone rispetto, quale che sia il livello di assenso che s’intenda dare; b) che opporre al concreto del ricorsi esegetici l’astrattezza delle formulazioni generali di teoria della letteratura è del tutto gratuito, soprattutto quando le citazioni teoriche utilizzate non sono pertinenti (più spesso sono pura esibizione irrelata); c) che l’analisi letteraria, come la storica, la filologica e ogni altra, obbediscono a precise regole deontologiche, e non per una ragione ipostatica di “morale”, ma al solo servizio dell’interpretazione corretta del testo.

Nel secondo capitolo, enormemente dilatato rispetto alla pochezza dei dati oggettivi, potrebbe forse accogliersi, seppure con beneficio d’inventario e in base ad assai più accorte ricerche, una data quale quella del 1445 (il Riquer, in Hist. Lit. Cat. II, 621, aveva fissato i termini fra il 1435 e il 1462, coincidendo con i risultati dell’inchiesta linguistica), sebbene sia sempre sommamente rischioso stabilire un anno esatto per un’opera di quelle dimensioni e di quei tempi quando manchi un riferimento preciso; ma quella che appare altamente dubbia è la proposta -meramente tale- secondo cui nel co-protagonista del Curial si sarebbe voluto effigiare Giovanni IV di Monferrato. Il processo di identificazione è francamente gracile; ma, quand’anche così non fosse, esso non aggiungerebbe granché a quanto già sapevamo per altra via sul romanzo.

In quanto a quello che lo stesso E. definisce il “to inequívocament proborgonyó de l’obra” (p. 97), lascio volentieri a Pamela Waley il compito di difendersi. Non dovrebbe risultarle difficile, perché, fra interrogativi gratuiti (v. ad as. p. 77), cronologie date per accertate e che non lo sono (v. ad es. pp. 78 e 103), motivazioni insufficienti (v. ad es. p. 83), identificazioni forzate e anche un po’ astruse (v. ad es. pp. 84-5), e un bel po’ di contraddizioni, si ha la netta impressione di affogare in un fiume limaccioso di polemiche gratuite, al solito affidate a mere induzioni ed elaborate esclusivamente sulle spalle degli altri. Ma certo sorprende che un autore sempre così apoditticamente sicuro di sé e armato di tanti sofismi (forse per coprire una superficialità che non ha voluto pagare il prezzo di inchieste faticosamente originali?) si lasci poi sfuggire (freudianamente?) a p. 87: “Independentment del nom Salones i del locatiu Venosa, que no hem sabut identificar”. Povera antica Venusia che, guarda caso, fu importante centro fin dall’antichità, poi normanna e quindi disputata da svevi, angioini e aragonesi, di cui parlano anche le guide del Touring Club!

Ma è in rapporto alla cosiddetta tesi valenciana che l’E. diventa ancora più aggressivo. Il sistema, ovviamente, è sempre quello, infantilmente manicheo e tautologico, dell’asseverazione senza beneficio di prova, mentre l’eleganza del linguaggio si definisce da sé: la frase di G. Colon: “Merecería la pena un estudio lingüístico esmerado de este texto”, viene definita (non si sa perché) “Una evident provocació” (p. 110); un’altra frase di A. Ferrando è chiosata come “colossal simplificació” (p. 115), e così via. E nel contraddire studiosi della statura di Corominas, Colon, Veny e Giner con garibaldina improntitudine, anziché mettersi a studiare su quelle indicazioni (magari per smentirle tramite sostanziosi dati nuovi, oltre cioè la assai succinta appendice del Par), ci si aggrappa alle poche forme da essi segnalate,

––––––––   140   ––––––––

ci si arzigogola attorno in maniera posticcia e, purtroppo, si perde per sempre la buona occasione di avviare una seria analisi linguistica: presupposto, se non altro, di quell’esame stilistico promesso in apertura e di cui non c’è traccia in tutto il volume.

Ora io non so quante possibilità potrà avere la cosiddetta tesi valenciana di cogliere nel vero e quanto potrà convincere la deduzione (e però non necessaria ad essa) di un’attribuzione di paternità del romanzo a Joan Olzina, soprattutto perché ritengo che il testo sia quello che è e offra quello che offre, per di più in una pluralità (o coacervo se si preferisce) culturale di tal fatta da poter dare adito a più d’una ípotesi e a tutte insieme. Quel che invece mi par naturale è di non scatenarsi contro una tesi la cui dimostrazione è tutta di là de venire (il Ferrando ha solo preannunciato il proprio lavoro) e agire, con estrema cautela quando non si sa cosa il destino riserbi. Certo, il rifiuito di Olzina perché “abocat al llatí” e “funcionari regi” (p. 116) è motivazione del tutto sconsiderata e stupefacente. Per converso, concludere asserendo che “És evident, tanmateix, que només una prova documental ho resoldria definitivament i segura” (ibidem) è almeno grottesco, perché, se esistesse la prova documentaria, l’intera elucubrazione dell’E. non avrebbe avuto ragion d’essere e la sua fatica si sarebbe vanificata.

Fatica davvero ingrata se, per oltre cento pagine, ci si è dovuti arrampicare sugli specehi e dar colpi a destra e a manca, allo scopo di porre nella luce più favorevole una propria tesi, che si avanza, ovviamente, fondandosi su quel solo Curial che, come confessa lo stesso E., è “la nostra única dada” (p. 148: e allora le famose “noves dades a partir de punts segurs” dove sono andate a finire?). Tesi, purtroppo, che non ha altra forza se non quella del cavilloso indurre, del gratuito ipotizzare (sull’ambiente giuridico-finanziario e mercantile), dell’utilizzazione di ogni materiale in forma solo parziale e capziosa. Si vuole un esempio soltanto? In mezzo rigo del romanzo (parte africana) si scrive del cavaliere che possedeva “en les ortes, luny de Túniz mija legua, una casa” (III, 98): ebbene, questo basta all’E. per dimostrare (secondo lui) che l’anonimo era pratico di Tunisi (p. 128). Ma, in verità, poi ci si accorge che l’argomento viene lanciato, con subita ma impropria finalità, per dare fondamento alla propria ipotesi solsonese -del tutto non dimostrata- e a un Jacine Perpunter pienamente non credibile (basti per questi vedere il riassuntino a p. 247).

E siamo così al centro della nuova “tesi”: quella che dà il titolo (alquanto sibillino) al volume. Assunto il triangolo Curial-Güelfa-Laquesis (modello letterario di antichissima memoria, nonché dato strutturale al di qua del romanzo), l’E. lo proietta sul triangolo Magnanimo-Maria-Lucrezia d’Alagno, riducendo l’intero romanzo a un omaggio consolatorio dell’arionimo verso la regina Maria, lasciata molto sola, come si sa, da Alfonso e da questi ampiamente tradita. Forse è a causa di questo assunto che l’E. si stupisce tanto che il Curial manchi di una dedica nelle pagine precedenti del suo volume. Ma il fatto si è che, anche quando si volesse accogliere come plausibile (e in ogni caso non dimostrabile) il sospetto che l’anonimo intendesse rendere un omaggio consolatorio alla regina, ciò non aggiunge assolutamente nulla né alla conoscenza dei vari problemi che il Curial pone, né si vede come possa suffragare la tesi solsonese, né porge in alcun modo una diversa chiave di lettura del testo: insomma, il cauto argomento di una breve nota extra-testuale.

Nella seconda parte del libro (quella che vorrebbe essere letteraria) le cose vanno anche peggio che nella prima. Se il lettore dovesse aspettarsi, legittimamente, un’interpretazione “critica” del testo, resterebbe pienamente deluso, giacché, anche qui con improvvisazione grande, si saltella a destra e a manca con una pericolosissima tendenza alla astratta gratuità e una marcata disposizione a risolvere i problemi

––––––––   141   ––––––––

dello specifico mediante assiomi generalizzanti. E sconsola constatare l’assenza di un’adeguata conoscenza e del Medioevo e del post-Medioevo; e si cita a sproposito (ad es. i due scritti del Bohigas sono menzionati fuori posto, p. 182, e sotto il profilo critico non capiti) o non si cita affatto (si cercherebbe invano una menzione dell’articolo dell’Aramon) o si stravolge del tutto quanto altri hanno scritto (ad es. p. 155), lanciando obiezioni generiche, gratuite e non pertinenti; e si affastellano discorsi al limite dell’inconcludenza, come nel caso delle Cronache o, in forme davvero sorprendenti, della Fiammetta (la cui importanza a livello culturale europeo è misconosciuta e fraintesa): il tutto coprendosi dietro certe citazioni alla moda, surrettizie, cui si ricorre, parrebbe, parrebbe, per mascherare l’accusato vuoto culturale e l’incapacità di adesione al testo.

In un tale marasma di genericità, astrattezze, contraddizioni e gratuità (purtroppo arrogantemente asserite), non solo si cercherebbe invano una proposta critica minimamente degna del nome, ma anzi è da dire che non c’è pagina che non presti il fianco ai rilievi più azzeranti. Farlo, significherebbe profittare in maniera sproporzionata della pazienza del lettore (già troppo intrattenuto) in merito a un libro che rende un pessimo servigio al Curial, per essere così insanabilmente arbitrario. Si potrebbe dire, ad essempio, che il rapporto differenziale istituito fra testo sentimentale e testo cavalleresco è posto in termini del tutto inconsistenti (altra cosa è la sceverazione fra romanzo psicologico e romanzo sentimentale in rapporto alla narrazione cavalleresca, ma, per parlare di ciò, l’E. avrebbe dovuto prestare attenzione a quel che altri hanno scritto) o che si mescola cultura del XIII secolo e cultura del XV in modo del tutto scriteriato, e così via lungo una serie esorbitante di obiezioni: ma a che pro?

A che pro evidenziare l’ingenuità di un discorso sui generi letterari che, per esser visto al di fuori delle ottiche più recenti (magari da non condividere ad occhi chiusi, ma che pure ha un peso) ed essere ancorato al più vieto positivismo, si dimostra del tutto insufficiente per determinare il carattere e la specificità del testo? Ma qui le cose vanno ancor peggio che altrove, visto che l’E. non si cura affatto di circoscrivere il perspicuo del Curial, magari muovendo dal discorso del “genere”, sibbene si ferma alle più grezze premesse e a quelle asservisce l’opera, eludendo sia l’esegesi concreta e precisa, sia l’analisi degli sfondi e delle implicazioni letterarie. Insomma, a stare a questo tipo di pagine, si dirà che il significato della Chanson de Roland è tutto e solo nel suo appartenere alle chansons de geste oppure che, essendo Ariosto e Tasso esponenti di un medesimo genere, fra loro non passa differenza di sorta: e i discorsi sono belli e fatti.

Le pagine di conclusione godono del medesimo rigore che informa tutto il volume.



Arriba