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Spagna-Ispanoamerica: una storia, una letteratura1

Giuseppe Bellini





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Sul finire del 1492 due mondi che si erano reciprocamente ignorati per secoli entrano improvvisamente in contatto. «A las dos horas después de media noche», scrive Colombo, «pareció la tierra». Una frase semplice segnata sul Diario de a bordo, ma che assume presto un grande significato: il mondo iberico, o in senso più vasto l'Europa, entra in contatto con il mondo americano. Non è ancora il continente; si tratta solo di un'isoletta, Guanahani, ma non occorrerà molto tempo perché la geografia americana riveli agli spagnoli parte rilevante della sua straordinaria dimensione. Colombo, come sappiamo, di fronte al mondo nuovo non porrà freno alla fantasia, vedrà giardini meravigliosi, alberi che presentano foglie e frutti «de diversas maneras» su un solo tronco, resterà stupito di fronte alle distese di acque popolate di isole, lo stesso panorama che secoli dopo evocherà nuovamente, esaltandone la bellezza, ora «civilizzata», García Márquez ne El otoño del Patriarca, mondo senza uguali, contemplato dal palazzo-ospizioprigione da stanchi dittatori deposti, un «reguero» di isole che riassume in sé tutta la straordinarietà dell'America caraibica.

Per Colombo la gente sarà dapprima buona e bella, avrà un discorrere gentile, linguaggio certamente incomprensibile per gli scopritori, che tuttavia l'Ammiraglio afferma di capire. L'illusione del mondo felice è completa. Verranno presto momenti diversi, avrà inizio un'epoca dura di sottomissione e di violenza, che annullerà materialmente la presenza indigena. Ma prima è la conquista dei grandi imperi: quelli degli Aztechi, dei Maya e   —82→   degli Incas. La strabiliante grandezza di queste civiltà colpirà la fantasia dei nuovi venuti e alcuni tenteranno -i frati evangelizzatori, soprattutto francescani- di preservare la memoria di tanta grandezza in rovina, Sconfitto e ricacciato il demonio da una parte immensa del mondo in cui per tanti secoli Dio, a detta dei religiosi, gli aveva lasciato libertà piena di esercizio.

Sarà, tra molti altri, il francescano Toribio de Benavente, «Motolinía», o «Povero», come lo chiamarono gli indigeni -uno dei «Doce Apóstoles», i primi evangelizzatori giunti a México-, nella sua Historia de los Indios de la Nueva España, e soprattutto Bernardino de Sahagun, autore di una monumentale Historia General de las Cosas de Nueva España, così preso dalla grandezza della civiltà e della cultura del mondo azteco da porle addirittura, per alcuni aspetti, al disopra di quelle della Spagna.

Quando il mondo americano è crollato, questi studiosi benemeriti, ai quali occorre aggiungere almeno il tanto discusso Diego de Landa per l'area maya e Cieza de León per quanto concerne il Perù -ma l'elenco sarebbe lunghissimo per tutta l'America-, tentano di salvare per la memoria dei secoli quanto ancora è possibile. Nulla sapremmo oggi delle grandi civiltà americane defunte, o ben poco, se non esistessero le opere di questi studiosi e cronisti, di autori come Garcilaso de la Vega, «El Inca», il quale nella prima parte dei Comentarios Reales celebra la grandezza della civiltà incaica, la perfezione delle leggi e dell'ordinamento statale.

A distanza di secoli, nel Settecento, la sua descrizione dell'impero incaico e della sua civiltà entusiasmerà ancora il nostro Algarotti e farà esprimere all'istriano Gian Rinaldo Carli, funzionario di rango di Maria Teresa d'Austria, nelle Lettere Americane, il desiderio di essere vissuto in quelle epoche felici e in quelle terre, rette con tanta saggezza. Un'idealizzazione certamente eccessiva, che tuttavia attesta la partecipazione ancora una volta a una condanna della distruzione operata dagli europei nel mondo americano, e proprio in quell'epoca in cui il mito del «buon selvaggio» veniva gravemente insidiato dalle teorie del De Pauw, del Robertson e del Raynal.

Del resto, non erano solo gli stranieri, al di là della lunga e aspra polemica antispagnola della «leyenda negra» -che strumentalizzava le durissime denuncie del domenicano Bartolomé de Las Casas nella Brevísima historia de la destrucción de las Indias-, a ripudiare la violenza della conquista e lo sfruttamento degli indigeni da parte dei conquistatori e dei colonizzatori. Il contatto tra spagnoli e americani fu presto distruttivo per questi ultimi. La conquista non si realizzò, naturalmente, con modi pacifici, ma attraverso   —83→   la violenza e il sangue. Due scene apocalittiche dominano quasi simbolicamente la storia americana successiva al 1492: l'assedio e la distruzione di Tenochtitlán, al Nord, e la strage di Cajamarca, con la cattura dell'Inca Atahualpa, al Sud. Sia Cortés, sia Bernal Díaz del Castillo, e quest'ultimo evocando la scena a distanza di decenni, sottolineano la vastità della strage nella capitale messicana, il fatto che, dopo il lungo assedio, vinta la resistenza dei difensori ridotti da tempo alla fame, gli spagnoli e i loro alleati entrassero nella città camminando su strati di morti e da ogni casa, da ogni apertura di edificio non apparissero altro che corpi morti, cui si aggiunsero altre numerose vittime, che proprio gli alleati tlascaltechi ancora fecero per vendetta, nonostante gli ordini di Cortés.

Garcilaso «el Inca», da parte sua, descrive a tinte efficaci, nella seconda parte dei Comentarios Reales, la strage degli indigeni in fuga, dopo la cattura del loro sovrano: terrorizzati essi abbatterono addirittura una consistente muraglia per trovare scampo nella campagna e furono infiniti i morti sotto le macerie o calpestati dai loro stessi compagni, oltre che uccisi dagli uomini di Pizarro, i quali sembra avessero l'accortezza di infilzarne più di uno alla volta con la spada, onde risparmiare tempo.

Queste stragi furono solo l'inizio di un estendersi generale della violenza e del sopruso, cui gli evangelizzatori tentarono di porre in qualche modo rimedio. Già «Motolinía» additava alla pubblica condanna, in Messico, le angherie di gente di bassissima categoria, cui i conquistatoti venivano affidando la cura dei propri beni, gente che non si faceva scrupolo di umiliare duramente gli antichi signori, essendo loro feccia della società. Né, per quanto attiene al Perù, Cieza de León era da meno, quando di fronte all'abbondanza di un paese che sembrava quello di «Jauja» o di Cuccagna, condannava lo sperpero insensato delle ricchezze, i vizi e il vivere violento dei colonizzatori, il naufragio irrimediabile del mondo indigeno.

Non tutto, certamente, fu così. La nuova società si andò configurando poco a poco. Gli ordini religiosi, nonostante le invidie e le rivalità inevitabili, fecero molto per la pacificazione del continente. Personaggi come il padre Las Casas riuscirono a determinare anche l'emanazione di una legislazione molto attenta ai diritti degli indios, le note Ordenanzas Reales, promulgate da Carlo V nel 1542, a Barcellona, fino alla dettagliata legislazione riunita nella Recopilación de Indias del 1680, anche se spesso la malvagità degli uomini lasciò lettera morta le disposizioni legali.

La cultura penetrò anch'essa lentamente e fu, com'è naturale, quella dei vincitori. Ancora una volta gli ordini religiosi svolsero un'opera di   —84→   grande significato: con i conventi essi fondarono scuole di arti e mestieri, scuole superiori di Grammatica ed Università, istituirono biblioteche di notevole consistenza per l'epoca. Sappiamo che il primo vescovo di México, il francescano Juan de Zumárraga, possedeva una biblioteca di 400 volumi, che mise a disposizione degli studiosi e più tardi legò al Collegio Imperiale di Santa Cruz di Tlatelolco, che aveva fondato con il vicerè don Antonio de Mendoza, destinandolo alla nobiltà indigena. Nel 1646 il vescovo, poi vicerè della Nueva España, Juan de Palafox y Mendoza, francescano di nobilissima famiglia, sempre in dura lotta con i gesuiti, dotava il Seminano di Puebla de los Ángeles di una biblioteca di 12.000 volumi in varie lingue. Ma il Zumárraga ha anche il merito di aver introdotto in America la stampa: nel 1535 egli aprì a México la prima stamperia, affidandola a tale Giovanni Paoli, che sempre nel «pie de imprenta» ostentò la sua origine bresciana. Nel 1582 un altro italiano, Antonio Ricciardi, aprì la prima stamperia nel Perù, a Lima, affermando anch'egli con orgoglio la sua origine torinese.

Erano state fondate intanto le prime Università: quella di Santo Domingo nel 1538, nel 1551 quelle di México e di San Marcos di Lima, cui seguirono negli anni successivi altre numerose nelle varie capitali dei Vicereami, spesso più di una in ogni città. Non si può certo dire che la Spagna abbia trascurato la formazione culturale nei territori conquistati, esempio unico per molto tempo tra le nazioni colonizzatrici europee. Neppure trascurò la comprensione e la memoria della civiltà indigena, passati i furori della guerra e della caccia agli idoli; infatti, immediate e numerose furono le grammatiche, numerosi i vocabolari delle diverse lingue, sia dell'impero azteco che di quello incaico, e di altri ambiti linguistici, che videro la luce in breve tempo ad opera dei frati. Nell'Università di Lima si giunse ad esigere da parte dei professori la conoscenza del quechua.

La voce indigena non si spense, quindi: rivisse, in più occasioni, attraverso queste iniziative, più spesso nella lingua dei vincitori. Ma i seminari di studio che frate Bernardino de Sahagún aveva organizzato nei centri principali dell'antico impero azteco, onde raccogliere documentazione scientifica intorno a tale mondo, trasmisero in lingua nahuatl l'essenza di una cultura che la conquista aveva troncato nel suo sviluppo. Questa cultura finì per penetrare in profondità, quasi occultamente, il mondo ispanoamericano, i cui confini si estesero non solo dal Messico al sud del continente, ma alla California, al Texas, al bacino del Missipi, alla Florida, toccarono il Canadà e l'Alaska. Non si può intendere perfettamente l'opera di Sor Juana Inés de la Cruz, di Alarcón, né quella di artisti come Asturias, Paz o Neruda, dello   —85→   stesso García Márquez, se non si hanno presenti i fondamenti della cultura precolombiana.

La vicenda storica legò l'America, per forza di cose, alle nazioni che la conquistarono. Per quanto concerne l'area ispanoamericana, questa unione si affermò nel tempo: non si limitò solamente all'epoca coloniale, ma si manifestò anche nelle epoche successive, fino ai nostri giorni. Quando Napoleone tentò, ad esempio, di staccare le colonie americane dalla Spagna sconfitta, si ebbe un netto rifiuto, non solo, ma provocò il rafforzamento dei legami con la madrepatria, rappresentata allora dalle Cortes di Cadice. Costrette a reggersi, in sostanza, con le proprie forze, le colonie sperimentarono un primo momento di libertà all'insegna del lealismo. Ciò doveva condurre presto alla lotta per l'indipendenza totale, dopo il ritorno sul trono spagnolo del re legittimo, il retrivo Fernando VII; lotta iniziata nel Venezuela dal Miranda, poi ripresa e condotta a compimento da San Martín e soprattutto da Simón Bolívar. Nel 1824 rimanevano alla Spagna, del vasto impero coloniale, solo Cuba, Portorico e le Filippine, che perdeva definitivamente con la pace di Parigi del 1898, dopo il disastroso confronto con gli Stati Uniti, i quali ottenevano non solo le Filippine e Portorico, ma estendevano il proprio protettorato su Cuba.

Furono anni difficili, e tuttavia il legame con la Spagna si mantenne e si rinsaldò man mano, quando l'indipendenza delle nazioni americane fu un fatto irreversibile. Non che la Spagna non avesse tentato, nei primi tempi, la «riconquista», ma la frustrazione dei vari tentativi, o il successo temporaneo limitato, convinsero la nazione iberica che un'epoca era finita e che occorreva fondare su relazioni diverse il legame tra l'antica patria e le ex colonie. Un legame, del resto, che per ragioni di sangue, permaneva indissolubile.

Il segno più profondo dell'unità dei due mondi ispanici è dato dalla comunanza di cultura, comunanza di spirito. Un lungo processo che inizia ai tempi della scoperta e della colonizzazione. Già si è detto che, per forza di cose, la cultura ispanoamericana sorge influenzata, determinata, da quella ispanica, anche nelle sue strutture esterne. D'altra parte, che cosa potevano portare in America gli spagnoli se non la cultura propria, la propria letteratura? La penetrazione incomincia al momento stesso della conquista. La cronaca americana è un prodotto ispanico che si rinnova e rinvigorisce con il tema americano. La poesia entra in America attraverso il «romance» tradizionale. Ciò che i conquistatori possedevano dal punto di vista culturale non era molto, ma ben radicato-, rivivevano nella loro mente i «romances» e   —86→   le favolose storie dei libri di cavalleria, letti o uditi raccontare. Scrive Bernal Díaz del Castillo, al seguito di Cortés nella conquista, che quando dalle alture che circondano la valle del Messico videro al fondo un gran lago e sorgere su di esso una straordinaria città, lo ritennero cosa d'incantesimo, del tipo di quelle che si leggevano nel libro dell'Amadis. Il «romance», poi, era così presente tra i conquistatori che servì da linguaggio allusivo in situazioni particolarmente difficili, come, oltre al Díaz, altri cronisti confermano, ed era così popolare che presto diede origine ad altri «romances» di argomento americano: valga ricordare il ciclo di Cortés, i «romances» dedicati alla sfortunata morte di Diego de Almagro, uno dei conquistatori, con Pizarro, del Perù, alla vicenda del ribelle Pedro de Aguirre, a quella di un altro ribelle, Francisco Hernández Girón, ad altri personaggi e avvenimenti per i quali, tuttavia, non ci sono pervenuti testi. Il genere era poi destinato ad avere una straordinaria fortuna nel Nuovo Mondo nei secoli successivi, soprattutto nel filone sentimentale e lirico, fino a pervenire alla «copla» venezolana e al «corrido» messicano.

Come prodotto americano il «romance» conserva profondo il legame con quello peninsulare, ne elabora orginalmente i temi e introduce echi di gran parte della letteratura spagnola, dalle Danze della Morte alla Celestina, dal Libro de Buen Amor, dell'Arcipreste de Hita, alle Coplas di Jorge Manrique, ma radicandosi fermamente nella realtà locale.

È un altro segno dell'unità delle letterature ispaniche nella diversità. I tempi iniziali della acculturazione sono dominati in America dallo spirito dell'Età Media, che dalla Spagna penetra in profondità nel mondo conquistato o in via di conquista, non solo per gli ordinamenti e le istituzioni. Lo stesso atteggiamento «eroico» che domina l'impresa americana, pur nell'umano timore della morte, è finalizzato all'acquisto della Fama, mito ereditato da quel mondo che dopo secoli di guerre era uscito vittorioso dalla Reconquista. Bene lo aveva espresso Juan de Mena nel Laberinto de Fortuna:


O virtuosa magnífica guerra,
en ti las querellas bolverse deuían,
en ti, do los nuestros muriendo biuían
por gloria en los çielos e fama en la tierra.



Il tema della Fortuna nella cronachistica americana conferma lo spirito dell'Età Media. Gran tema presente in tutta la letteratura medievale spagnola, in America ritrova efficaci esempi nell'ingratitudine sovrana verso   —87→   Colombo e verso Cortés, nelle tragiche morti di Francisco Pizarro, di Almagro, di Gonzalo Pizarro e di altri condottieri e anche di ribelli, per i quali, in meno di un'ora, come afferma l'Inca Garcilaso, la Fortuna uguagliò la sventura alla grande sorte che con altrettanta rapidità avevano avuto.

Nel processo di formazione della letteratura ispanoamericana della Colonia entra determinante nei primi tempi anche la letteratura italiana. La poesia epica, partendo dalla Araucana di Ercilla, seguirà l'Ariosto dell'Orando Furioso. Ma l'Ercilla darà al poema epico il carattere non del poema fantastico, bensì della cronaca storica narrante avvenimenti contemporanei, nel suo caso la conquista dell'Araucania. Garcilaso de la Vega, ammiratore dell'Orlando Innamorato e del poema di Ercilla, rimpiangeva che La Araucana non fosse stata scrìtta in prosa, poiché sarebbe stata più efficace come documento storico. A distanza di secoli Pablo Neruda tornerà al poemacronaca nel Canto General, dichiarandosi testimone della storia. La stessa cosa farà con più marcato prosaismo, ma non con minore poesia, Ernesto Cardenal in El Estrecho dudoso.

Seguirà Ercilla, tra altri, colui che possiamo considerare suo diretto discepolo, il meticcio cileno Pedro de Ofta, in El Arauco Domado. Sarà poi la volta del Tasso come modello, mutato il clima con la Controriforma, ma Ercilla continuerà ad essere punto di riferimento, e con lui il Furioso, anche se ideologicamente sarà la Gerusalemme Liberata a dominare, sarà la Divina Commedia, come si coglie nello straordinario poema religioso di Diego de Ojeda, La Cristíada.

Nell'ambito della poesia lirica gli italianisti rinascimentali ispanici danno avvio a una produzione che presto sarà rilevante. Il noto autore di madrigali, preziosi per raffinatezza espressiva e per cromatismi, Gutierre de Cetina, dà inizio in México a una scuola poetica di grande rilievo, fermento dal quale sorgerà, nell'epoca Barocca, Sor Juana Inés de la Cruz, «Fénix de México», che comporrà il suo maggior poema, Primero Sueño, «imitando a Góngora», come afferma con orgoglio l'intitolatore, in realtà costruendo una sintassi propria, impiegando un vocabolario non meno straordinario di quello gongorino, del tutto originale, come originale e inedito è il tema scientifico-filosofico, che conclude sull'impossibilità umana di penetrare i misteri divini. Gran poema del fallimento della conoscenza che molto spiega non solo della suora ma di tutto il mondo coloniale.

Nel Perù ruolo fondamentale ha la «Academia Antártica», frequentata dall'Oña, centro di italianismo, filtrato attraverso la poesia spagnola. Enrique Garcés vi diffonde, prima di stamparli in Spagna, i sonetti e le canzoni   —88→   del Petrarca, che traduce in spagnolo, ma i nostri autori, Dante stesso, vi giungono anche nei testi originali, essendo all'epoca la nostra lingua ampiamente praticata in ambito iberico. Da questo fermento poetico usciranno espressioni di vario livello e nel periodo barocco un poeta originale come Juan del Valle y Caviedes, autodidatta orgoglioso, di origine spagnola, ma limegno «por los cuatro costados», critico dei costumi come lo era stato Quevedo, suo autore di riferimento. La corruzione dilagante, la disonestà, il potere corruttore del danaro, la giustizia venduta, sono i temi profondi svolti in una poesia vigorosa e fresca, frutto di un ingegno genuino.

Anche il teatro si afferma in America fin dagli inizi dell'evangelizzazione, ripetendo le tappe percorse nell'Età Media ispanica. Dapprima gli Ordini religiosi lo monopolizzano a fini edificanti, valendosi anche di apporti indigeni, come la danza, e di ampi scenari naturali. I frati, lo stesso «Motolinía», sono spesso abili autori di opere complicatissime, nelle quali fanno intervenire masse intere di attori. Poi il teatro diviene mezzo di intrattenimento, entra nelle chiese con i «villancicos», diviene spettacolo religioso con gli «autos sacramentales», e nei palazzi con le commedie mitologiche e di cappa e spada. Sor Juana è anche una grande autrice drammatica in tutti questi generi: dai numerosissimi «villancicos», di grande agilità e bellezza, alle commedie, tra esse Los empeños de una casa, agli «autos sacramentales». Suo maestro nel teatro profano è Lope de Vega, in quello religioso Calderón de la Barca, che per alcuni critici la suora addirittura supera nell'«auto sacramental» El Divino Narciso.

Se durante l'epoca coloniale era logico che la cultura ispanoamericana fosse, nonostante i molti aspetti originali, non solo nella creazione letteraria, ma nella pittura e nell'architettura, fermamente orientata verso la Spagna, sulla fine del secolo XVIII sembrò rompersi questa unità. Il mondo coloniale americano, sempre irrequieto, scosso da non indifferenti movimenti di rivolta sempre sedati, insidiato nella sua compattezza dalle nazioni rivali -Inghilterra, Francia, Olanda- attraverso attacchi pirateschi, o sottoposto a smembramenti per effetto di guerre disastrose in Europa, entra in crisi. Né indifferenti furono talune misure del governo peninsulare, come l'espulsione dei gesuiti per effetto del decreto di Carlo III, nel 1767, e la sua importanza ebbe anche la polemica sul «buon selvaggio», che infuriò in Europa negli ultimi decenni del Settecento, ad opera del De Pauw, del Raynal e del Robertson, provocando accesi interventi contrari, non solo da parte dei gesuiti espulsi e rifugiatisi in Italia, tra i quali Rafael Landívar e Francisco   —89→   Xavier Clavígero, ma anche di italiani, come l'abate Galiani e il già citato Gian Rinaldo Carli. Momento denso di avvenimenti e di polemiche, il cui effetto fu di accentuare il desiderio di indipendenza degli ispanoamericani da una patria lontana che inviava ormai solo funzionari e riportava profitti.

Già ho alluso al periodo di «indipendenza lealista» di fronte a Napoleone e al fratello Giuseppe che aveva elevato a re di Spagna. I fermenti indipendentisti si nutrivano delle idee degli Enciclopedisti francesi. È del 1794 la traduzione, ad opera del colombiano Antonio Nariño, della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, cui seguì quella del Contratto sociale. Montesquieu, Voltaire e Rousseau furono gli idoli del momento, vietati e quindi letti e commentati clandestinamente. La libertà fu la grande passione. Nel 1792 l'abate peruviano Juan Pablo Viscardo scriveva dall'esilio una Lettre aux espagnols américains, nella quale sosteneva apertamente, con fondamenti giuridici, il diritto degli americani all'indipendenza:

«Il n'est plus de pretextes pour excuser notre resignation; et si nous souffrons plus long-temps les vexations qui nous acablent, on dira avec raison que nôtre lâcheté les a meritées: [...]».



Diffonderà questa lettera Francisco de Miranda, alla morte del gesuita, e diverrà il testo fondatore dell'indipendentismo americano.

Un indipendentismo che naturalmente si rifletté anche nel gusto e nell'espressione letteraria. La letteratura francese -ma non bisogna dimenticare quella italiana, così radicata in America fin dall'inizio della colonizzazione- fu riferimento e modello. La Nouvelle Héloise favorì una sensibilità nuova, che le opere di Bernadin de Saint-Pierre e di Chateaubriand accentuarono. Il Romanticismo ispanoamericano fu certamente di prevalente segno francese, ma anche intervennero altri autori, vennero letti e tradotti i canti di Ossian, Young e Thomas Gray; Byron fu di casa in America, come Victor Hugo -non dimentichiamo di quest'ultimo la lunga stagione americana, se ancora ripetutamente lo venera Pablo Neruda-, né meno rilevante fu la presenza del Foscolo dei Sepolcri e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, e di Scott per il romanzo storico. La Spagna tra il secolo XVIII e il XIX non brilla per grandi autori, anche se ne ha di significativi. Del resto, proprio il ripudio dell'antica madrepatria durante e dopo il processo indipendentista opera beneficamente sulla letteratura ispanoamericana, che riscopre la peculiarità del proprio mondo in María, di Jorge Isaac, sulle orme di Atala et René, si apre alla letteratura tedesca, oltre che a quella francese e   —90→   nordamericana. Poe sarà alla base del fantastico che fiorirà nel Río de la Plata e grandi scrittori come Dos Passos, Heminguey, Faulkner presiederanno alla maggiore età del romanzo ispanoamericano del secolo XX, mentre Whitman eserciterà non indifferente influenza, non solo su Giocano, ma sullo stesso Neruda.

La Spagna, quietati i tempi, riaffermerà la propria presenza in America con la poesia di Bécquer, la narrativa costumbrista e realista, in particolare con Pérez Galdós. Il grande autore delle Tradiciones peruanas, Ricardo Palma, darà al costumbrismo una nota di espressione e di humour che nettamente le distinguerà dagli scrittori costumbristi spagnoli, ai quali pure si rifa. E il cileno Alberto Blest Gana costruirà, ispirandosi agli «Episodios nacionales» di Galdós, una valida e contrapposta storia della lotta cilena per l'indipendenza. Mentre altri autori, come l'argentino Eugenio Cambacerés o il messicano Federico Gamboa, sulle orme del naturalismo francese, faranno opera pretestuosamente denunciataria, in realtà al servizio dei pruriti sensuali e dei tabù dell'alta borghesia.

Ma la letteratura ispanoamericana saprà trovare anche momenti di piena novità, come nella poesia «gauchesca» e nel Martín Fierro, e una forza di rinnovamento che comunicherà alla madrepatria con il «Modernismo». Con l'avvento del Modernismo, infatti, l'apertura americana sulle altre letterature, soprattutto su quella francese, produce effetti rilevanti anche sulla letteratura spagnola. Nella poesia dei modernisti americani le innovazioni metriche non ripudiano le forme caratteristiche della poesia castigliana, ma si avventurano a sperimentare anche metri propri della poesia orientale, giapponese, cinese, indiana, sulla scia delle letture di Edward de Goncourt. In Spagna poeti come José Asunción Silva o Rubén Dario trovano commenti favorevoli in critici quali Juan Valera e Miguel de Unamuno. Rubén Dario è accolto trionfalmente nella penisola al suo arrivo e contagia con il suo verso tutta la poesia spagnola. Sarà, il Modernismo, la linfa vitale che permetterà alla lirica ispanica di raggiungere in seguito gli esiti straordinari di un Juan Ramón Jiménez, di un Machado, di un Guillén, di dare avvio a tutta la grande produzione poetica del secolo XX, vista giustamente come un rinnovato secolo d'oro delle lettere spagnole. L'America, con il Modernismo, restituisce qualche cosa di fondamentale alla Spagna, il vigore creativo: è il «retorno de los galeones» di cui ha scritto Max Henríquez Ureña. Per contro, saranno autori come Bécquer, come Jiménez, Lorca, Guillén, Salinas, Aleixandre che, esaurita la vitalità del Modernismo, daranno modo a poeti quali   —91→   Neruda, Borges, Vallejo, lo stesso Paz, per non citare che i maggiori, di esprimere la propria originalità.

Tra il secolo XIX e il XX una grande stagione dell'ispanoamericanismo si inaugura nella vecchia madrepatria. Numerosi scrittori, tra essi Rómulo Gallegos, pubblicano le loro opere a Barcellona o a Madrid, accolti con favore dalla critica e dal pubblico. Una nuova epoca felice per la creazione letteraria e per la fratellanza intellettuale ispanica sembra inaugurarsi, ma la guerra civile del 1936 la interromperà. Ciò durerà, nella sostanza, per tutto il lungo periodo della dittatura. L'editrice ufficiale, «Cultura Hispánica», infatti, diffonderà, sotto il regime, solo alcuni poeti e scrittori americani di orientamento evidente o di assoluta neutralità. La censura proibirà, con altri molti, Lorca e Neruda, le cui opere si commerceranno clandestinamente. Nessun insegnamento ufficiale di letteratura ispanoamericana sarà attivato nelle Università. Unico laccio di possibile unione la rivista «Cuadernos Hispanoamericanos», che dirige per qualche tempo Pedro Laín Entralgo.

Ma il legame non si interrompe, opera sotterraneo. Grandi poeti come Vallejo e Neruda avranno sempre presente la Spagna. Neruda canterà continuamente la nostalgia per la Madrid dell'epoca felice in cui abitò il «Barrio de Arguelles», la «Casa de las flores», evocherà continuamente Lorca e Miguel Hernández, dichiarerà Vicente Aleixandre simbolo della resistenza della poesia alla violenza della barbarie dittatoriale. Un filo profondo che nulla può spezzare lega l'America alla Spagna ed è la sua letteratura, la problematica che in essa si manifesta, nella quale vede confluire i propri problemi e le proprie aspirazioni. Neruda lo manifestò con chiarezza: gli era toccato di percorrere gran parte del mondo, dichiara, prima di giungere alla Spagna e di scoprire di quella terra i grandi poeti, i suoi «veri fiumi», e non solo Calderón con le sue «sillabe che cantano», i «cristallini» Argensolas, quel Góngora «fiume di rubini», o quel Garcilaso di boschi e acque di cui Neruda si appropria, o anche quel Manrique che in un'ode ci presenta pentito di aver cantato un'eternità vuota, in una lugubre stagione medievale, ma soprattutto quel Quevedo che fu per lui «la roccia tumultuosamente tagliata, la superficie emergente e tagliente su un fondo color di sabbia, su un paesaggio storico che -scrive- aveva appena incominciato a nutrirmi. Gli stessi oscuri dolori che io avevo voluto invano formulare, e che forse si fecero in me estensione e geografia, confusione di origine, palpito vitale per nascere, li trovai dietro la Spagna, inargentata dai secoli, nell'intimo della struttura di Quevedo. Egli fu allora il mio padre spirituale, colui che mi fece intendere la Spagna».

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Profonda sarà l'orma di Quevedo nella poesia e nella narrativa ispanoamericane del secolo XX, fino ai nostri giorni. Per gli scrittori e i poeti sudamericani finirà per acquistare un significato ben più profondo dell'imprenscindibile Cervantes, o di Baroja, due maestri per la narrativa americana, anche dopo la scoperta dei grandi narratori europei, da Kafka a Joyce a Proust, e nordamericani. Si insinuerà stabilmente nell'opera di Asturias come in quella di Carlos Fuentes, nella poesia di Borges come in quella di Octavio Paz. Perché Quevedo rappresenta un fiume sotterraneo costante, che da Seneca alimenta il terribile cantore della morte e della nullità umana e da Quevedo continua inarrestabile fino ai nostri giorni rispecchiando le inquietudini dell'uomo, posto di fronte sempre ai grandi e irrisolubili problemi della vita e della morte. A lui costantemente si volgono poeti e narratori; anche non denunciato egli si insinua nelle loro opere per confermare una lezione eterna: la miseria delle grandezze umane, la vanità dell'orgoglio, la validità della dignità, la fratellanza come salvezza. Affermava Neruda nel Canto General che l'uomo «è più grande del mare e delle sue isole» e che bisogna «cadere in esso come in un pozzo per uscire dal fondo / con un mazzo di acqua segreta e di verità sommerse». Un medesimo sentire, che fa sì che l'espressione letteraria non abbia divisioni tra le due regioni geografiche del mondo ispanico.

La fine della dittatura rafforza i legami tra il mondo ispanico, europeo e americano. Parigi rimane un richiamo per gli scrittori, ma sempre meno importante. La Spagna, con le sue case editrici a Madrid e soprattutto a Barcellona, è più che mai punto d'attrazione. Scrittori come Asturias, Fuentes, Vargas Llosa, García Márquez, Onetti, Roa Bastos, vi pubblicano i loro libri. Alcuni di essi -Onetti, Vargas Llosa, Roa Bastos- hanno chiesto e ottenuto addirittura la nazionalità spagnola. Nel campo letterario si riscopre il valore della cronaca quale annunzio della narrativa ispanoamericana: mentre Asturias si rifa a Bernal Díaz del Castillo, oltre che a Garcilaso «el Inca», García Márquez valorizza il primo; e Vargas Llosa riscopre Tirant lo Blanc. Il legame tra l'Ispanoamerica e la Spagna attraverso la storia e la creazione artistica è più che mai operante.





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