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La scoperta del Nuovo Mondo e la cultura italiana del Cinquecento

Giuseppe Bellini





Scriveva il veneziano Giovanni Battista Ramusio, celebrando l'impresa e la figura di Cristoforo Colombo, di aver udito dire molte volte «da gravissimi senatori, che in diversi tempi sono stati ambasciatori di questa Repubblica in Spagna, che ognuno di quella corte diceva ch'ei meriterebbe che gli fusse fatta una statua di bronzo, acciocché li posteri in tutti li regni di Spagna avessero sempre dinanzi agli occhi l'auttore di tanti tesori e grandezze aggiunte a quei regni»1. Né meno entusiasta si mostrava Giuseppe Moleto nella dedica delle Historie del S. D. Ferdinando Colombo a Baliano di Fornari, quando definiva lo Scopritore «uomo veramente divino», «degno veramente di vivere nella memoria degli uomini, fin che duri il mondo», che se fosse vissuto nei tempi antichi, non solo «l'avrebbono annoverato, e messo nel numero degli Dei, ma ancora fatto Principe di quelli»2.

Siamo oltre la metà del Cinquecento ormai: il terzo volume delle Navigazioni e Viaggi del Ramusio appare nel 1556 e le Historie di Fernando Colombo addirittura nel 1571. La fama di Cristoforo Colombo è da tempo affermata, e particolarmente in Italia, mentre da parte ispanica interessi concreti della Corona tendono a offuscare il nome del Genovese, a sminuirne i meriti come scopritore del Nuovo Mondo. Le Historie, nella loro composita fattura, sono, nella sostanza, la reazione a un'ingiustizia che gli eredi Colombo non sopportano e che la Serenissima Repubblica si compiace di favorire con la stampa, perseguendo finalità visceralmente antispagnole3. D'altra parte anche il Ramusio si indigna per i tentativi di ridurre la portata della gesta colombiana, ricorrendo alla fola del «pilota anonimo». Egli la qualifica duramente di «Favola veramente e invenzione ridicolosa, composta e formata con tanta malignità, in pregiudizio del nome di questo gran gentiluomo, quanto dire o imaginar si possa»4.

Quanto sopra per indicare come la cultura italiana -e quella veneta era parte rilevante di essa-, fosse cosciente dell'importanza della Scoperta. Ciò contrasta con la lentezza con cui l'ufficialità, ossia il governo della Serenissima, mostra di interessarsi al Nuovo Mondo. Per anni, ufficialmente, sembra che nulla sia avvenuto nell'Atlantico. L'ambasciatore Gasparo Contarmi informa il governo della repubblica circa le terre scoperte da Colombo quando Cortés da cinque anni è sbarcato nello Yucatán e si è ormai impadronito di Tenochtitlán e dell'impero azteco5.

Per ragioni evidenti in italia è il Papato a interessarsi fin dal momento iniziale alla scoperta colombiana; i primi documenti ufficiali sono le due Bolle Inter Coetera, che Alessandro VI firma il 3 e il 4 maggio 1493. Si trattava di ripartire le nuove terre segnando un confine che non suscitasse conflitti tra le due «grandi potenze» del momento: Portogallo e Spagna. Le numerose Bolle degli anni seguenti attenderanno ai problemi dell'evangelizzazione e alla definizione della «natura» delle genti americane.

Venezia, seguita in sottordine da Roma, Firenze e Milano, sarà presto il centro di una fiorente editoria americanista, attenta più alle vicende della conquista. Già nel 1524 appare, nella traduzione di Nicolò Liburnio, La preclara narratione di Ferdinando Cortese della nuova Hispagna del mare Oceano, la cui edizione originale è del 1522, ad attestare l'interesse e la celerità della diffusione. Alcuni traduttori di cronache si affermeranno: a Venezia il citato Liburnio e a Roma Agostino de Cravaliz, che nel 1555 pubblica, nella capitale del Papato, la traduzione de La primera parte dell'Istoria del Perú, di Cieza de León.

Il Meridione d'Italia, preso da pressanti problemi, di conservazione dinastica a Napoli, di fronte alle pressioni di Ferdinando il Cattolico, e dal pericolo turco, sembra non aver occhi per quanto accade nell'Oceano. Scrive Francesco Giunta che, pur sensibilissimo alla ricezione di determinati avvenimenti storici, il Meridione «sembra alzare un muro di silenzio verso l'eccezionale impresa atlantica di Cristoforo Colombo»6. Ma anche qui sarà il Meridione politico a rimanere sordo, mentre quello colto, mosterà segni rilevanti di interesse, saranno gli umanisti di origine meridionale inseriti in vari contesti culturali e politici: Pensiamo a Pomponio Leto e all'intensa corrispondenza sull'argomento che gli indirizza Pietro Martire, in risposta alle sue pressanti richieste di notizie americane, e soprattutto a Nicolò Sallado, professore esimio all'Università di Pavia, nome che «più di ogni altro -con parole del Giunta- lega l'Umanesimo meridionale alla scoperta colombiana»7.

È forza riconoscere che all'origine dell'interesse italiano per il Nuovo Mondo, partendo dalla Scoperta, stanno la corrispondenza e le Decades de Orbe Novo, del «milanese», Pietro Martire d'Anghiera e gli scritti di Cristoforo Colombo' Nel 1493 appare a Roma La Historia della Inventione delle dhiese isole di Canaria indiane, extracta d'una epistola di Cristoforo Colombo, un poemetto in ottava rima, non di particolare valore letterario, ma interessante perché risonanza quasi immediata della scoperta colombiana. L'operetta paga tributo alla potenza dominante e interesse le lodi di re Ferdinando, che fa protagonista della decisione di dare avvio all'impresa di scoperta, lasciando totalmente nell'ombra la regina Isabella. La fonte è la lettera che Colombo scrisse a Gabriel Sánchez informandolo circa il suo viaggio, ma ben poco vi è di personale: solo impegno religioso e celebrazione dell'evento come voluto da Dio.

Di maggior significato certamente è il libretto dello Sallado, De insulis meridiani atque Indici maris nuper inventis, che nello stesso anno 1494 l'umanista dedica a Ludovico Maria Sforza, settimo duca di Milano, e ciò nonostante fa il noto errore di far compiere a Colombo, nel secondo viaggio, una traversata da ponente a levante, un periplo dell'Africa. La Scelfo ha sottolineato attentamente questa e altre incongruenze8, ma il De insulis ha una sua pregnanza, pur nell'invenzione spesso fantastica, per la visione che offre del mondo americano e del suo abitante, redatta in un latino aulico, per lettori di elevata categoria.

Ciò che lo Sallado recepisce del Nuovo Mondo, e con lui la nostra cultura, è l'eccezionalità della natura americana, la barbarie del cannibalismo, ma anche la novità dei frutti commestibili. Non si dimentichi che cosa significò anche per il nostro paese, soprattutto per talune regioni nordiche, come il Veneto e la Lombardia più sottosviluppata, l'importazione di prodotti come il mais e la patata, nonostante le iniziali diffidenze destinati a fugare lo spettro ricorrente della fame9.

Anche per lo Scillacio esistono i mansueti indiani, ma sono proprio questi le vittime dei cannibali, «gente piuttosto feroce», e tuttavia con una qualità che sembra positiva: «resistentissima alle fatiche»10. Anche la donna è oggetto di attenzione. Lo Scillacio ne ha un concetto che rimane sospeso tra la positività e la negatività. Per molto tempo la donna americana sarà, in definitiva, colpevolizzata dai cronisti ispanici, come fonte della tentazione e deposito della libidine. Ricordiamo la fama della infelice Anacaona, passata alla storia come «la libidinosa», con ogni probabilità senza sua colpa, e finita arsa a Santo Domingo. Il senso di colpa di fronte al peccato doveva tornare ossessivo nei conquistatori e la scusante veniva trovata nella licenziosità dell'indigena. Cosi lo Scillacio non esita a parlare delle donne come di esseri avvenenti e tentatori, anche se ne difende la sostanziale serietà morale: «il portamento è delicato, l'andatura un po' sfacciata, scherzano con i nostri, civettano senza ritegno purché non si tratti di nulla di vergognoso e si offendono se si abusa del gioco»11. Una difesa poco convinta, sembrerebbe, se prosegue, illustrando il modo di danzare:

«[...] Di solito danzano in questo modo: la maggior parte, coi capelli legati da diademi e mitre, partono contemporaneamente da un unico punto, ora di corsa ora a passo più lento. Le lamine che hanno tra le dita sono battute alternativamente tra loro, non per gioco, ma perché producano un tintinnio. Al loro suono, con voce non diversa dal canto, non sgradevoli per dolcezza, eseguono con contorsioni sinuose una danza flessuosa e languida, con una bellissima coreografia, talvolta con un intreccio vario e inestricabile, senza che nessuna s'imponga sulle altre, tra l'ammirazione di tutti coloro che assistono. Eccitate e spossate per il gioco sfacciato e lascivo, accelerando l'andatura con passi uguali, terminano la prolungata danza con un grido».12



Quello di Nicolò Scillacio è un mondo aureato di classicità, dove tutto è nobile e scintillante d'oro, del quale vi è grande abbondanza. Lo scrittore parla del mitico regno di Saba. Tutto è trasformato dalla fantasia, che opera accentuando le visioni fantastiche già di Colombo, il quale, per lo Scillacio, fece vela verso l'Oceano Indiano.

Il De insulis ebbe grande fortuna non solo in Italia, ma in Europa e fu subito edito ad Anversa, Basilea e Parigi. Intanto si fa largo Venezia: tra il 1501 e il 1502, Angelo Trevisan, segretario di Domenico Pisani, ambasciatore veneto in Spagna e Portogallo, invia a Giovanni Malipiero, personaggio in vista della Serenissima, quattro lettere dalla Spagna, nelle quali lo ragguaglia intorno ai viaggi di Colombo, traendo informazioni dalla generosa disponibilità di Pietro Martire e sembra, dagli scritti stessi del Genovese. I grandi diaristi veneti, come Marino Sañudo e Girolamo Priuli, non fanno eco delle scoperte americane se non in modo sfuggevole e confuso. Ma a partire dal 1519 il Sañudo si sofferma nei suoi diari sull'abbondanza dell'oro americano e celebra l'aspetto economico della conquista, condannato degli americani il cannibalismo, in realtà facendo scarso caso della popolazione indigena. Tuttavia è Gasparo Contarmi, il primo personaggio ufficiale veneziano a rompere il silenzio, nel 1525.

L'abbondante materiale informativo offerto da Pietro Martire nelle sue lettere e nel De Orbe Novo, opere che appaiono ad Alcalá de Henares nel 1530, ma che sono in gran parte, e abbondantemente note anche prima, domina i cliché che si vanno formando in Italia intorno all'America. Sempre più si afferma il mito-realtà dell'abbondanza d'oro, di un mondo lussureggiante che si presenta come una terra di Cuccagna, abitato da esseri che vivono nudi, in una sorta di età dell'oro, carenti felicemente del senso della proprietà, idolatri, ma senza che ciò intacchi minimamente le qualità positive del nuovo mondo.

Certo i cannibali sono una macchia, ma anche questa viene presto dimenticata in seguito all'incontro con i grandi popoli del continente, gli aztechi, i maya, le cui civiltà appaiono evolute e organizzate, avvicinabili alla civiltà europea, quindi positive. Di Cortés Pietro Martire celebra l'impresa e contribuisce a diffondere un'idea eroica dell'azione ispanica d'oltremare, benché presto critichi degli spagnoli l'eccessiva cupidigia e ne denunci gli abusi.

Sarà sempre l'Anghiera a diffondere notizie interessanti sui miti, le leggende, la religione, la concezione della morte presso gli americani. La comparsa a Venezia, nel 1534, del Sommario dell'historia dell'Indie Occidentali cavato dalli libri scritti dal Sig. Don Pietro Martire Milanese, opera forse del Navagero, contribuisce a diffondere una visione esaltante dell'America e in sostanza anche del suo abitante, se esistono, come racconta nel libro terzo della prima Decade, personaggi saggi come il canuto vecchio che da una canoa intrattiene Colombo sul destino delle anime e sulla ricompensa finale, abile uso dell'exemplum filosofico13. Nel 1556 l'opera verrà raccolta nel terzo volume delle Navigationi et viaggi del Ramusio.

Negli anni precedenti altri testi avevano trattato della Scoperta e del Nuovo Mondo. Nel 1503 Jacopo Foresti, da Bergamo, aveva pubblicato a Venezia il Supplementum supplementi chronicarum, dove faceva riferimenti alle scoperte americane. Nel 1504 veniva edito, anonimo, a Venezia -ma pare vi siano state edizioni precedenti-, il Libretto de tutta la navigatione de' Re di Spagna de le isole et terreni ñopamente trovati, che riprende quasi letteralmente la corrispondenza del Trevisán14. Il testo confluirà poi, con poche varianti, nel volume di Fracanzio di Montalboddo, Paesi nuovamente ritrovati et Novo Mondo da Alberigo Vesputio Fiorentino intitulato, che appare a Vicenza nel 1507. L'anno successivo, 1508, a Milano, veniva edita la traduzione latina, del monaco Arcangelo Madrigano, Itinerarium Portugallensium in Indiam et inde in Occidente et demum ad Aquilonem, poi riprodotta nel Novus Orbis regionum ac insularum veteribus incognitarum, del Grimeo, edito a Parigi-Basilea nel 1532.

Né va dimenticata la lettera che il 15 ottobre 1495 il gentiluomo savonese Michele da Cuneo scriveva all'amico Gerolamo Annari, probabilmente residente a Genova, in risposta a una sua precedente richiesta di notizie, alla quale aveva dato rapida risposta pensando di essere in breve con lui. Trascorrendo il tempo da Cuneo si decide a scrivere una dettagliata relazione, poi intitolata De Novitatibus Insularum Oceani Hesperii Repertarum a Don Christoforo Columbo Genuensi, che per la prima volta pubblica il Berchet nel 189315. Un documento conturbante per l'indifferenza con cui il savonese, compagno di Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio, considera l'indio, se doma con la forza la «camballa» che lo Scopritore gli ossequia e la piega alle sue voglie, sottolineando all'amico il soddisfacente comportamento di essa, «vi so dire che nel facto parea amaestrata a la scola de bagasse»16, e se considera l'indio, nel tentativo colombiano di farne commercio come schiavo, per la poca resistenza, merce da non acquistare17.

Tuttavia il testo è prezioso, perché il savonese osserva anche con attenzione i costumi e in particolare i prodotti del luogo, si occupa minutamente della fauna, dai mammiferi agli uccelli, ai pesci ed è il primo a tentare una sistemazione di tutta la natura delle Indie, cosi che, come afferma il Gerbi, «Alla sua lettera [...], piuttosto che alle Decadi di Pietro Martire, si deve riconoscere "la singularidad de ser la primera manifestación de historia general de las Indias"»18.

Non v'è dubbio che il Mondo Nuovo presenta cose utili anche a quello Vecchio e ai suoi abitanti. Il da Cuneo descrive in dettaglio, ad esempio, il modo di fare il pane dalla manioca e ne celebra la funzione diciamo «salvatrice», anche nei riguardi degli europei: «il quale a noi molte fiate è venuto in conzio»19. Ma è testimone anche della proficua introduzione di fauna e flora europee nel mondo americano, ossia di un inizio di intercambio di animali e prodotti tra i due mondi, destinato a integrarli sempre più.

Posto rilevante nelle relazioni italo-americane ha, naturalmente Amerigo Vespucci. Le due lettere che gli invia a Lorenzo di Pier Francesco de Medici, nel 1500 e nel 1501, raccontano le vicende della spedizione portoghese alle isole di Capo Verde e forse al Rio delle Amazzoni e al Marañón, tra il maggio 1459 e il giugno 1500. Il Mundus Novus appare a Firenze nel 1503, versione di un testo italiano sconosciuto, una terza lettera al Gonfaloniere di Firenze, Pietro Soderini, pubblicata nel 1505 o 1506, ebbe grande diffusione ed è nota con il titolo di Lettera di Amerigo Vespucci delle isole nuovamente trovate in quattro suoi viaggi.

Il fiorentino è il descrittore del Brasile e del Venezuela, che egli stesso così battezzò per la somiglianza tra un agglomerato urbano costruito sull'acqua e la città lagunare: «[...] erano circa 44 case grande ad uso di capane fondate sopra pali grossissimi e tenevano le loro porte o entrate di casa ad uso de ponti levatoi: e duna casa si poteva correre tutte a causa de ponti levatoi che gittavano di casa in casa; [...]»20. Il lettore doveva sentire immediata la suggestione della somiglianza con Venezia.

Il Vespucci diffonde nel mondo italiano una visione «barbara», ma non troppo, del mondo americano; se lamenta che gli indigeni non abbiano orari fissi per mangiare, al modo europeo, è tuttavia colpito dalla loro pulizia, anche se essi non hanno ritegno di orinare in pubblico, mentre per evacuare si nascondono. In particolare Vespucci è colpito da una presunta indipendenza individuale: gli indios che egli contatta non sono retti da alcun re e «ognuno è signore di sé»21. Non v'è dubbio, siamo nel regno dell'utopia. Ma l'entusiasmo del fiorentino è destinato ad avere breve durata. Certo lo interessano i costumi delle donne e si sofferma sulla lussuria che le distingue, più degli uomini, e tanto che si trattiene dall'entrare in particolari, che solo insinua. Comunque, osserva con attenzione il sesso femminile, nota che le donne sono piuttosto sode, anche se molto procreatrici, e che mostrano con generosità senza senso di colpa, come noi il naso e la bocca, ma pure nascondono il sesso con le cosce, cosa che, naturalmente, non possono fare con «quella parte ad che natura non provide che e honestamente parlando el pectignone»22.

Una vita intermedia, quindi, tra la denuncia del vizio e l'affermazione di una certa onestà. Al settore positivo appartiene anche quel sottolineare come gli indigeni siano fieri, generosi nel dare e tengano in poco conto le ricchezze, dietro le quali si affannano, invece, gli europei;

«Le ricchezze che in questa nostra Europa e in altre parti usiamo, come oro, gioie, perle e altre divitie, non le tenghono in cosa nessuna, et anchora che nelle loro terre l'habbino, non travagliano per haverle né le stimano».23



Certo i cannibali sono gente bestiale anche per Amerigo Vespucci, ma il cliché era ormai affermato, a partire dalle prime notizie diffuse da Colombo nel suo Diario. Il fiorentino ne accentua, se possibile, la condizione inumana, li dipinge orribili, resi più ributtanti dal continuo masticare «erba»:

«Erano di gesto e viso molto brutti: e tutti tenevano le ghote piene di drento di una herba verde, che di continuo la rugumavano come bestie, che apena potevano parlare, e ciascuno teneva al collo due zucche secche, che l'una era piena di quella herba che tenevano in boccha, e l'altra duna farina blancha, che pareva gesso in polvere, e di quàdo in quando con un fuso che tenevano inmollandolo con la boccha, lo mettevano nella farina: di poi se lo mettevano in boccha da tutta due le bande delle ghote, infarinandosi l'herba che tenevano in boccha: e questo facevano molto e minuto et meravigliati di tal cosa, noi potevamo intendere questo secreto, ne ad che fine così facevano. [...].24



Non disdegnerà, comunque, il Vespucci il meraviglioso, come quando racconta dell'incontro con sette donne, «di tanto alta statura, che per maraviglia le guardavamo»25, perfettamente proporzionate, che pensano subito di far prigioniere, onde portarle «per cosa maravigliosa» al re di Castiglia. Senonché compaiono all'improvviso trentasei uomini -il fiorentino sembra aver avuto il tempo, nonostante la paura, di contarli- «molto maggiori che le donne: e quali ci missono in tanta turbatione, che più tosto saremmo voluti essere alle navi che trovarci con tal gente»26.

Fervida fantasia quella di Amerigo Vespucci, ma adatta a un pubblico lettore ansioso di notizie strabilianti sul mondo sconosciuto. Nella società italiana il concetto del gigantesco americano, presente in talune regioni meridionali del continente, si afferma, proprio per merito del fiorentino. Il Gerbi avanza l'ipotesi di un'interpolazione o forse di «uno di quegli eccessi di febbre malarica, che sofferse il reduce prima di rediger la sua lettera»27, come informa il Bandini28. Ma l'allucinazione era ormai corrente, ne aveva dato prova lo stesso Scopritore, di fronte gdla natura dell'Espanda; e se non era allucinazione era una scelta di sicuro effetto al fine di richiamare lettori.

La letteratura «americanista» fiorì rigogliosa nel nostro paese, sulla scia di queste relazioni e di altre di cui è ozioso fare l'elenco, tanto son note. Non bisognerà, corfiunque, dimenticare la traduzione, forse dovuta ad Andrea Navagero, del Sumario di Gonzalo Fernández de Oviedo, che apparve a Venezia nel 1534, col titolo di Libro secondo delle Indie Occidentali. Sommario de la naturale et generale historia de l'Indie Occidentali composta da Gonzalo Ferdinando del Oviedo, testo che ebbe subito straordinario successo e che fu poi incluso nella raccolta del Ramusio, Navigazioni e Viaggi, che proprio alla metà del secolo XV sembra fare il punto sull'interesse della nostra cultura verso l'America.

Il libro dell'Oviedo influì certamente, dal punto di vista dei dati geografici, sul piemontese Giacomo Castaldi, autore de La Universale Descritione del Mondo, del 1562, ma ancor maggiore fu la risonanza nella nostra cultura del terzo volume del Ramusio, apparso nel 1556, dove tutta l'opera dell'Oviedo era tradotta. Certo il cronista spagnolo non contribuiva, con quest'opera, a dare una visione positiva dell'indio, ma nella cultura italiana la reazione fu presto diversa, nella sostanza, poiché se per un verso, indubbiamente, il testo del cronista spagnolo valse ad accentuare interpretazioni negative, esso fu efficacemente contrastato, nella stessa raccolta, da altri testi, tra i quali le Lettere di Cortés -apparse già a Venezia nel 1524, col titolo de La preclara narratione di Ferdinando Cortese della Nuova Hispana del Mare Oceano-, che rivelavano l'esistenza di civiltà favolose, ricche e perfettamente organizzate, sulle quali si era abbattuta, secondo il crescente antispagnolismo italiano, ingiustamente, la violenza della conquista.

Vale ricordare, intanto, che proprio la seconda Carta del conquistatore del Messico fu determinante per la «confezione», diciamo così, delle notizie intorno all'impero azteco e a Montezuma, quali appaiono in un'opera di particolare rilievo, il Libro di Benedetto Bordone, edito a Venezia nel 1528, il famoso Isolano, più volte ristampato e nell'edizione pure veneziana del 1534 arricchito da una «gionta del Monte de oro» -la montagna del Potosí-, copia o compendio, comericorda il De Cesare, di una relazione giunta nel marzo 1533 e concernente la conquista del Perù da parte di Pizzarro29. Il libro del Bordone offriva anche una suggestiva rappresentazione grafica della città di Temistitlan, interpreta come una città rinascimentale. Tale rappresentazione valeva a fare più reali, per il lettore, le meraviglie descritte nel testo: quelle di una città ricca di palazzi, di giardini, di laghi, di costumi raffinati e di non meno raffinati svaghi.

Con l'iniziativa del Ramusio, comunque, si apre un dibattito fecondo sull'America. Attraverso le Navigationi et Viaggi si può dire che i testi fondamentali riguardanti la scoperta del Mondo Nuovo e la sua presa di possesso da parte ispanica siano tutti accessibili al lettore italiano colto. Non dimentichiamo, inoltre, che nel 1555 a Roma, Agostino de Cravaliz pubblica la traduzione de La primera parte dell'Istoria del Perú, di Cieza de León, e nel medesimo anno quella della Historia de México di Francisco López de Gómara, mentre nel 1566 lo stesso traduttore edita del Gómara La Historia generale delle Indie Occidentali, la cui influenza sarà notevolissima sulla visione italiana del mondo americano e del suo abitante. Pure a Venezia, nel 1563 viene data alla stampa la traduzione de La Historia dello Scoprimento et Conquista del Perù, di Agustín de Zárate.

Una bibliografia imponente, che attesta l'interesse vivo della nostra cultura per le cose americane, un interesse che diverrà mano a mano sempre più critico, sulla fine del Cinquecento e soprattutto nei primi decenni del nuovo secolo, quando le stamperie veneziane metteranno in circolazione le opere di fra' Bartolomé de Las Casas: nel 1626 la Istoria o brevissima relatione della distruttione dell'Indie Occidentali, nel 1636 Il Supplice Schiavo Indiano, nel 1645 La Conquista dell'Indie Occidentali. Un atteggiamento di condanna, al quale già aveva davo voce nel 1565 Gerolamo Benzoni, nato «di umil padre nella mirabil città di Milano»30, nella sua Historia del Mondo Nuovo- ampliata nell'edizione del 1572 -, permeata di acceso furore antispagnolo e duramente denunciataria dei crimini della conquista, non solo, ma scettica nei confronti dei risultati relativi alla introduzione nel Nuovo Mondo di piante e ortaggi europei, mentre la riproduzione del bestiame dava frutti abbondantissimi31.

E tuttavia, per la nostra cultura, fu determinante l'iniziativa del Ramusio, in quanto stimolava il dibattito americano tra qualificati uomini di cultura, come, oltre al Ramusio stesso, Pietro Bembo, Girolamo Fracastoro e Giacomo Gastaldi. Dell'umanista veneziano è stato spesso sottolineato il significato del Discorso sopra le spetierie, compreso nel terzo volume delle Navigationi et Viaggi, dove la visione di una Venezia risorgente, per così dire, dai disastri finanziari prodotti dalla caduta di Costantinopoli e dalla scoperta di Colombo, è ottimistica. Nel Discorso Colombo è celebrato, ma l'attenzione è volta particolarmente a Caboto, vale a dire a un veneziano. E da rilevare, soprattutto, l'apertura mentale del Ramusio, l'interpretazione attiva che egli dà del mondo in rapida trasformazione. Superano le barriere tra cultura e utilità pratica -superamento del quale dà per primo esempio nella relazione cultural-commerciale che intrattiene con l'Oviedo, col quale fonda una società-, egli afferma una visione globale del mondo, dove tutto è attingibile e trapiantabile. Ma il Discorso non manca di contraddizioni, che si manifestano proprio là dove esso diviene filosofico, di una filosofia rinunciataria, che recrimina improvvisamente contro gli uomini dell'età presente:

«i quali non avveggendosi della naturale lor fragilità e debolezza, come se fossero immortali, non restavano per alcuna difficultà, né della Zona torrida, né delle due agghiacciate et fredde, d'andare continuamente travagliando, rivolgendosi d'intorno a tutta la rotondità della terra per satiar la loro immensa cupidità et avaritia».32



Scrive esattamente il Briguglio che la «variazione di atteggiamento mentale è evidente e tutto assume caratteristiche negative e tinte fosche»33 e che il pensiero del Ramusio ha subito una involuzione34. Ma il Discorso ramusiano è ugualmente importante, poiché provocato da un impatto profondo del fatto americano su un uomo di cultura che vide ed agisce in un ambito più vasto di quello che riguarda la sua persona.

Del pari rilevante è il Discorso sopra il terzo volume delle Navigationi et Viaggi nella parte del Mondo Nuovo, che il Ramusio dedica a Girolamo Fracastoro, l'autore del poema latino Syphilis seu de morbo gallico, pubblicato nel 1530. Partendo dal mito dell'Atlantide, per il quale si rifa al Timeo di Platone, il Ramusio perviene a trattare del Mondo Nuovo e interpreta la questione del continente scomparso come un sostanziale contributo del filosofo alla teoria dell'abitabilità di tutta la terra. Del resto, Dio non avrebbe permesso che metà della sua creazione andasse perduta e anche l'America è, quindi, abitata, indipendentemente dal tipo di clima. Platone con la sua teoria dell'Atlantide ha recato un grande contributo alla conoscenza di quella parte del mondo che doveva scoprire Colombo, e ciò per volontà di Dio. La Spagna è messa alquanto in disparte e vi è chi scorge in questo un atteggiamento già polemico nei confronti della grande potenza europea35. Tutto, infatti, è dipeso dalla volontà divina, e uomini e nazioni, sembra di intendere, sono strumenti occasionali.

Ramusio prosegue poi trattando della diversa durata del giorno e della notte secondo la latitudine della misurazione, della differenza di orario, dell'avvicendarsi delle stagioni nell'una e nell'altra parte del globo, sottolineando i progressi della conoscenza partendo da ciò che ci hanno lasciato gli antichi. Colombo viene esaltato per i suoi meriti, certamente, e difeso dalle insinuazioni, ancora serpeggianti, circa le rivelazioni che gli avrebbe fatto il fantomatico «pilota anonimo», ma è anche affermata una interpretazione originale del continente americano: di fronte alle cronache spagnole che elencano numeri e nomi di conquistatori, avvenimenti e fatti d'arme, occorre far conto del Mondo Nuovo come realtà scientifica vera e propria, al modo dell'Oviedo, ammirato amico.

L'atteggiamento critico nei confronti della conquista si accentua nel Discorso e il Ramusio fa responsabile la Spagna non solo nella diffusione delle epidemie, come il vaiolo, in terra americana, ma della distruzione di intere popolazioni, degli «infiniti strazi e fatiche»36 cui furono sottoposti gli indigeni, dei quali, rifacendosi sempre all'Oviedo, illustra il tipo di scrittura, con geroglifici in Messico, con quipus nel Perù.

Le nozioni intorno all'America, come attesta l'umanista veneziano, sono ormai piuttosto chiare al nostro mondo culturale più attento, il folklore è in gran parte superato, per un interesse più scientifico nei confronti del nuovo continente, del quale, proprio il Ramusio, indaga, attraverso i testi a sua disposizione e che rende pubblici, il modo di vivere, usi e costumi, la cultura e il modo di trasmettere nel tempo la propria memoria. Momento certamente esaltante, quello che vive l'intellettuale veneziano, quando avvengono tante cose sorprendenti e il mondo si rivela in tutta la sua realtà, alla cui ininterrotta comunicazione solo manca di scoprire il passaggio che permetta di raggiungere finalmente l'Asia per la via d'Occidente.

Ancora sul finire del Cinquecento l'America è motivo di interesse per la cultura italiana. Lo dimostra Giovanni Botero con le sue Relationi Universali, le cui varie stesure e parti appaiono tra il 1591 e il 1596, a Roma, a Bergamo, a Brescia. L'edizione bresciana del 1599 è la più affidabile e completa, come ha sottolineato Aldo Albònico in un suo dotto studio37.

Il Botero trae dal Nuovo Mondo motivo per riflessioni varie e paragoni singolari, nei quali cerca di stabilire quale sia, tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, superiore all'altro. Apparente questione peregrina, per il nostro discorso attesta l'inquietudine interpretativa della cultura italiana riguardo all'America. Nel libro primo delle Relationi Universali, tra i molti ragionamenti di apparente, o approssimativa, solidità scientifica, lo studioso cerca di porre in rilievo dapprima «In qual cosa il nostro mondo sia superiore al nuovo» e fonda questa superiorità, oltre che su una migliore posizione geografica, quindi climatica e celeste, sul fatto che nel nuovo mondo mancano animali come quelli del vecchio, ossia cani, asini, pecore, capre, porci, gatti «e quel che importa, né buoi, né caualli, né cameli, né muli, né elefanti», tra le piante da frutto «mancauano loro i cedri, naranci, limoni, melagrani, fichi, cottoni, melloni: ma sopra tutto grandissimo mancamento era quello delle viti, uliue, cannamele», né tra i «grani» avevano «né formenti, né i suoi compagni, né riso, né tra l'altre gentilezze de gli horti, melloni»38. Non parliamo delle arti, delle industrie, della navigazione, neppure tra i popoli più civili dell'America, Messicani e Peruviani. Il vivere «selvaggio» era la norma e tra le popolazioni peggiori stavano i «Cicimechi, popoli senza legge, senza capo, e senza stanze ferme, che viuono di caccie, e di frutti, che la terra da se produce, come gran parte dei Floridani e dei Paraguay»39.

La visione americana del Botero sembra fare un gigantesco passo indietro rispetto a quella degli umanisti veneziani. Egli segue l'Acosta e, come indica l'Albònico, le Litterae Annuae dei gesuiti40, in realtà molto attenti alla natura del Mondo Nuovo, con un entusiasmo che Poblato cuneense, al servizio dei Savoia, non mostra minimamente di avere. E ciò non tanto perché nulla avesse mai visto direttamente dell'America, ma per il suo spirito di uomo sostanzialmente grigio, poco incline agli allettamenti dell'immaginazione, compendiatore di testi altrui più che creatore di propri.

Una denuncia torna a formulare il Botero, ed è circa la responsabilità degli spagnoli nella distruzione delle popolazioni locali, con guerre e trasferimenti forzati. A ciò aggiunge la novità del cibo importato dall'Europa, l'abuso della libertà, così che gli indigeni «s'abbandonano all'otio, alla poltroneria, alla libidine, e all'ebrietà, che li consuma miseramente»41; senza far conto delle malattie contagiose, come il vaiolo. Il panorama che ne risulta è terrificante:

«[...] per le ragioni suddette, hoggi tutta la parte marittima della nuoua Spagna è quasi deserta, nell'isole del golfo Messicano non vi è restato quasi seme de' naturali; nella costa di Paria meno: ne' piani del Perù non v'è n'è la trentesima parte».42



Ma la sostanza, nonostante tutto, è che le popolazioni americane sono inferiori a quelle europee, perché selvagge la più parte. Né il Mondo Nuovo, checché ne dica l'Acosta, ha cose per le quali si possa concludere che è superiore al nostro. Il Botero dubita persino della maggiore quantità di metalli preziosi rispetto al vecchio mondo e si avventura a menzioni di luoghi che per lui dovevano essere ancor più misteriosi di quelli americani43. Se una superiorità concede all'America, è per la varietà di animali e di frutti, ma perché ai locali si sono aggiunti quelli europei, «con questo vantaggio ancora, che le nostre semenze fanno meglio nell'America, che le sue apò noi»44. L'Europa, quindi, sopra ogni cosa.

Siamo assai lontani dalla visione entusiasmante affermatasi per tanto tempo, che potremmo riassumere in quella consegnata nei primi decenni del Cinquecento dal Guicciardini nella sua Storia d'Italia: esseri, gli americani, «felici per il sito del cielo, per la fertilità della terra e perché (da certe popolazioni fierissime in fuora, che si cibano dei corpi umani) quasi tutti gli abitatori semplicissimi di costumi, e contenti di quel che produce la benignità della natura, non sono tormentati né da avarizia né da ambizione; [...]45. Invero molto tempo è passato e la «pax» ispanica, dapprima accolta come creatrice di un ordine nuovo, si è trasformata per l'Italia, alla fine del secolo XVI, in dura oppressione. Lontani sono ormai gli anni in cui l'Ariosto poteva celebrare le universali vittorie di Carlo V, sovrano destinato da Dio a «porre il mondo a. monarchia»46.

E tuttavia, proprio in questo periodo la cultura italiana penetrava in America, attraverso il Rinascimento spagnolo, profondamente permeato di italianismo. Intanto, nel 1535, un oscuro artigiano, Juan Pablos, o Giovanni Paoli, nativo di Brescia, inaugurava la prima stamperia nella capitale messicana, seguito nel 1577 da un torinese, Antonio Ricardo, o Riccardi, che nel 1582 si trasferisce a Lima, dove apriva la prima stamperia del Perù.

Nel vicereame della Nuova Spagna, presto il poeta spagnolo Gutierre de Cetina introduce l'italianismo nella nascente lirica locale, che dà poeti come Pedro Trejo, il petrarchista Francisco de Terrazas, celebrato da Cervantes nella Galatea, lo stesso figlio di Cortés, Martín. Nell'ambito peruviano il portoghese Enrique Garcés, traduttore, nel 1591, del Petrarca in castigliano, diffonde, nella recentemente fondata «Academia Antártica», il nostro poeta e il culto per la poesia italiana: da Dante all'Ariosto, al Tasso, dal Bembo al Castiglione, dal Tansillo a Vittoria Colonna.

Due anni dopo l'inizio del nuovo secolo apare a Lima la Miscelánea Austral, edita nella stamperia di Antonio Ricardo, e in essa il ruolo della poesia italiana nella nascente letteratura coloniale è confermato. Il direttore dell'Accademia, Antonio Falcón, era cultore e imitatore egli stesso di Dante e del Tasso. Il favore per Dante sarà efficacemente documentato nel Parnaso Antártico, di Diego Mexia de Fernagil, che appare nel 1608. Ma già profonda si era manifestata l'influenza della letteratura italiana nell'epica, sorta in America o con motivo dell'America. Lo spagnolo Alonso de Ercilla, ne La Raucana -pubblicata integra nel 1590, ma in parte in anni precedenti-, doveva riflettere in profondità l'orma dell'Orlando Furioso e diffonderla poi, nell'epica che in America a lui si ispirava, soprattutto nell'Arauco domado (1596), del meticcio «cileno» Pedro de Oña, ma anche nelle Elegías de Varones Ilustres de Indias (1589), di Juan de Castellanos, dove, tuttavia, prevale lo spirito antiriformista della Gerusalemme liberata del Tasso.

Ercilla e Oña, comunque, dovevano avere una vasta conoscenza della letteratura italiana e in essa anche dell'Arcadia del Sannazaro, alla base poi del Siglo de Oro, romanzo pastorale di Bernardo de Balbuena. Ma certamente fu Tinca Garcilaso de la Verga il maggior conoscitore americano della nostra letteratura e cultura. Uomo del Rinascimento aveva nella sua biblioteca personale testi di Dante, del Petrarca, di Boccaccio, l'Orlando innamorato del Boiardo, il Furioso dell'Ariosto, opere del Bembo, del Guicciardini, le Relationi Universali del Botero, e molti altri testi di diversi autori47. Significativo che la sua prima opera fosse una traduzione dall'italiano al castigliano dei Dialoghi d'amore di León Ebreo, che fu edita nel 1590. Nel 1605 Tinca doveva pubblicare la sua prima opera originale, la Historia de la Florida, permeata da visioni cavalleresche, densa di fatti d'arme, chiaramente influenzati dall'epica italiana. Persino il Giovio fu letto in America e originò una circostanziata risposta polemica al suo antispagnolismo, l'Antijovio di Gonzalo Jiménez de Quesada, il fondatore di Santa Fe de Bogotá. Era soltanto l'inizio di una lunga stagione di intense relazioni tra la cultura italiana e quella americana in formazione, che doveva giungere proficuamente fino ai nostri giorni48.





 
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