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La letteratura ispanoamericana interprete di un mondo1

Giuseppe Bellini





Il mio grazie più vivo alle Autorità accademiche, al Magnifico Rettore di questo prestigioso Ateneo, Prof. Pasquale Ciriello, al Preside della Facoltà, Prof. Domenico Silvestri, e al Consiglio delle stessa che hanno dato seguito positivo alla generosa proposta degli amici ispanisti. La mia gratitudine, naturalmente, va in particolare a Giovanni Battista De Cesare, al quale mi legano anni di affettuosa amicizia e di collaborazione, a tutti i Colleghi ispanisti, che hanno proposto mi fosse concessa questa distinzione, segno di stima e di amicizia.

E' oggi per me un grande onore ricevere questa distinzione dall'Università di Napoli «L'Orientale», una Università con la quale ho avuto, per il settore ispanistico, molti contatti e che ho iniziato a conoscere fin dagli anni di studente, attraverso i suoi precedenti professori e gli apporti scientifici all'ispanismo e all'ispano-americanismo del mondo napoletano. Un lungo e significativo rapporto che ha posto in primo piano nella mia formazione il preminente ruolo della città partenopea nella storia culturale ispanica, nella quale rappresentano momenti determinanti la corte di Alfonso il Magnanimo, fonte della maggiore età della letteratura castigliana, la figura di Carlo III di Borbone, re di Napoli, poi di Spagna, primo modernizzatore della penisola iberica, senza dimenticare l'attività di Benedetto Croce, che tanta luce ha fatto sulle relazioni tra l'Italia e la Spagna.

Il mio intervento intende, ora, nella sostanza, evidenziare l'orientamento da me seguito nei riguardi della disciplina alla quale più mi sono dedicato: la letteratura ispanoamericana, intesa sempre quale testimonianza di tutto un mondo.

In un lontano saggio, in cui trattava del valore delle lettere ispanoamericane, il messicano Alfonso Reyes affermava che la letteratura non era da considerarsi una pura attività ornamentale, bensì l'espressione più completa dell'uomo, poiché solo la letteratura manifestava l'uomo in quanto uomo, senza distinzione né qualificazione alcuna, e, aggiungeva, non esiste maggior specchio dell'uomo di essa, né via più diretta di concezione del mondo di quella manifestata dalle lettere perché i popoli si capiscano e si riconoscano tra di loro.

E' pur vero che la cattiva letteratura provoca danni, allorché diffonde idee perniciose, esempi criminali; ma quando parliamo di letteratura intendiamo altra cosa: quella che reca in sé valori veri e che, come ebbe a dire il citato Reyes, interpreta l'uomo, ne rappresenta la condizione sulla terra, combatte in suo nome e costruisce utopie redentrici: una letteratura che penetra non solo nella condizione umana dell'essere, ma nel suo mistero. Non senza ragione nelle «Alturas de Macchu Picchu» Neruda, rifuggendo dalle facili suggestioni dell'archeologia, ricordava che «l'uomo è più ampio del mare e delle sue isole», e che «bisogna cadere in esso come in un pozzo per uscire dal fondo / con un mazzo di acqua segreta e di verità sommerse».

La ricerca del grande cileno lo conduceva, alla fine, a constatare dolorosamente la continuità nei secoli dello sfruttamento. Ben lontano era il modello dell'elegia A las ruinas de Itálica, di Rodrigo Caro, cui in qualche modo si ispirava: le rovine di Macchu Picchu non recavano al poeta nostro contemporaneo memoria di alti esempi, non assurgevano a «favola del tempo», né a simbolo della fortuna, ma attestavano unicamente la sofferenza, l'ingiustizia, il sangue versato, l'agonia ignorata di gente alla quale Neruda aveva deciso di prestare la sua voce: «Parlate attraverso le mie parole e il mio sangue».

Si sono uditi di frequente scrittori, tra essi Mario Vargas Llosa, affermare che la letteratura è rivoluzionaria; lo è, in effetti, soprattutto per popoli ancora incatenati economicamente e politicamente, in quanto dà voce alla protesta contro l'ingiustizia, perseguendo un fine costante: la costruzione di un mondo più giusto, quindi felice, miraggio eterno dell'uomo a partire dal primo residente sulla terra.

Al disopra di ogni credo politico, la letteratura unisce i popoli attraverso un sistema di relazioni che si afferma nel tempo. Ogni attività letteraria confluisce in un unicum che elimina le frontiere. Non v'è poeta, prosatore, drammaturgo o saggista, a dispetto di scuole e di epoche, che non faccia tesoro della lezione di coloro che lo hanno preceduto, poco prima o secoli addietro, senza che per questo corra pericolo la sua originalità, al contrario ne viene rafforzata, sempre che di un vero artista si tratti. Alludendo ai grandi del passato, da Dante a Shakespeare, a Victor Hugo, Neruda affermava che questi poeti accumulavano certamente foglie, ma tra esse vi erano canti di uccelli, erano foglie di grandi alberi, erano «hojas» e «ojos», foglie e occhi, che si moltiplicano, ci guardano e ci aiutano a scoprirci, ci rivelano il nostro labirinto.

Tutto ciò è riscontrabile nella letteratura ispanoamericana fin dal suo primo testo fondatore: il Diario di bordo di Cristoforo Colombo. L'America fu per lo Scopritore, agli inizi, un mondo della meraviglia ed egli ne diede la prima immagine solare, visione che si è fissata stabilmente nell'immaginario universale, se si pensa ai Caraibi. A distanza di secoli la confermerà nuovamente Gabriel García Márquez, in El otoño del Patriarca, alludendo al reguero, alla sfilata di isole che si offre alla vista dei dittatori deposti, da lui tenuti sotto controllo in un palazzo sulle rive del Mare delle Antille, dove si consumano nell'inedia.

Per Colombo la fonte prima di paragone per il suo entusiasmo americano furono i luoghi incantati del mito. Egli vide splendidi giardini ricchi di alberi di fioriture diverse, a volte su uno stesso tronco, del tutto inesistenti, percepì l'eco di presenze animali, in realtà assenti, descrisse un mondo fantastico meraviglioso, frutto della sua fantasia oltre che della realtà. Nonostante le successive delusioni, questo mondo esaltante avrebbe continuato ad affascinare scopritori e conquistatori durante tutta la presa di contatto con il Nuovo Mondo. Nella novità dei luoghi tornavano a vivere i miti dell'Età dell'Oro, le favole della Fonte di perenne vita, dell'Eterna giovinezza, dell' Uomo tutto d'oro, delle Sette città, della Città aurea dei Cesari, esaltando il ricordo di racconti uditi o di remote letture. Il cronista-soldato Bernal Díaz del Castillo nella Historia verdadera de la Nueva España ricorda che allorché dall'alto dei monti che circondano la valle dell'Anáhuac lui ed i suoi compagni videro improvvisamente sorgere dalle acque del lago la splendida città di Tenochtitlán, capitale dell'impero azteca, lo stupore fu immenso e per renderlo ricorre alle rappresentazioni fantastiche del libro di cavalleria all'epoca più letto: «rimanemmo sbalorditi, e dicevamo che somigliava alle cose d'incantesimo che raccontano nel libro dell'Amadigi».

Più tardi, realizzata la conquista, fra Toribio de Benavente celebrerà la feracità della terra, dando vita, nella Historia de los indios de la Nueva España, a una sorta di «meraviglioso economico», mentre per quanto riguarda il Perù il cronista Cieza de León arriverà a manifestare profonde preoccupazioni morali di fronte alle straordinarie ricchezze del paese, definendolo nuova «tierra de Jauja», pericoloso paese di Cuccagna.

Non aveva tardato, tuttavia, di fronte ai crimini della prima conquista, a levarsi la voce del domenicano Bartolomé de Las Casas, nella Brevísima historia de la destruición de las Indias: egli denunciava la barbarie dei conquistatori, come del resto già dall'Española, poi Santo Domingo, lo aveva fatto anni prima, dal pulpito, frate Antonio de Montesinos, minacciando apocalittici castighi agli sfruttatori inumani degli indigeni.

Sono queste, per sommi capi, le manifestazioni iniziali della letteratura ispanoamericana. Una letteratura che celebra certamente la natura meravigliosa del Nuovo Mondo e la sua eccezionale ricchezza e produttività, la sua cultura, investigata da frate Bernardino de Sahagún per l'area azteca, dal vescovo Diego de Landa per quella maya, dall'Inca Garcilaso per il mondo incaico, ma che soprattutto denuncia duramente lo sfruttamento e l'ingiustizia.

Sarà la caratteristica permanente delle lettere ispanoamericane nel tempo. Su questa linea già aveva dato un contributo rilevante uno spagnolo conquistatore, il poeta epico Alonso de Ercilla, ne La Araucana: descrivendo le vicende della conquista di quella remota regione del Cile, egli non solo illustrava l'eccezionale bellezza, talvolta barbara, dei luoghi, ma esaltava il valore delle popolazioni indigene, mai da alcuno sottomesse, e prendeva partito contro i delitti consumati sui vinti, come era stato il caso dell'esecuzione, per impalamento, dell'eroe Caupolicano, sentenza che, se fosse stato presente, dichiara, non avrebbe permesso si realizzasse. Significativamente Neruda farà di Ercilla il suo poeta e ne adotterà i versi per proclamare l'invincibilità del suo paese di fronte all'assalto dei gringos, ai tempi di Allende.

Non di minor rilievo fu la presa di posizione in favore del mondo peruviano da parte dell'Inca Garcilaso, come attestano i Comentarios Reales e la Historia general del Perú: il suo esaltare il mondo incaico quale altra Roma e il parteggiare per il ribelle Gonzalo Pizarro, che bene avrebbe visto proclamarsi re di una società meticcia, rivelano un'indipendenza di giudizio che si erge coraggiosamente contro i dominatori, ai quali peraltro per via paterna lui stesso apparteneva.

Ancora durante il secolo XVII una suora messicana, Juana Inés de la Cruz, darà il suo contributo alla storia umana del mondo coloniale denunciando, nella Carta a Sor Filotea de la Cruz e nella precedente, meno nota, Carta de Monterrey, la condizione femminile di intelligenza perseguitata, gli arbìtri del potere religioso nel controllo sulla donna, e nella sua opera lirica l'ingordigia di un'Europa sfruttatrice insaziabile delle ricchezze americane, mentre nel teatro manifestava radicale avversione al privilegio di casta, come già Quevedo nel Sueño del Infierno. Dagli Antipodi, a sua volta, nello stesso periodo, un povero poeta autodidatta, Juan del Valle y Caviedes, seguendo con originalità propria il grande satirico spagnolo, avrebbe denunciato, nel Diente del Parnaso, la corruzione morale della società peruviana, dove il danaro era divenuto la misura di tutte le cose e persino la scienza medica si riduceva all'abilità di trovare «introduzioni», promuovendo una caterva di ignoranti «saggi», con grande offesa alla virtù e alla competenza.

Quello della Colonia è un momento di grande maturità per le lettere americane e di originalità piena, pur nella naturale influenza ispanica. Con la conquista era entrato in America un tipo di cultura di marcato segno medievale, come dimostra il fiorire della cronaca delle Indie e la diffusione del Romancero, ma non secondo un piatto conformismo. Di fronte alla nuova realtà non si trattava solo di illustrare imprese belliche, ma di interpretare la peculiarità di un mondo nel quale la natura e i nativi avevano parte dominante. Da narrazione di imprese la cronaca divenne indagine critica e scientifica, descrizione interpretativa della bellezza, ma anche dell' «orrore» americano, dando vita a una sorta di «realismo magico-denunciatario», impegnato con la vecchia e la nuova società in formazione.

Il Rinascimento e l'italianismo dovevano dare lustro all'ingegno americano, fondamento allo studio delle antiche culture dell'area azteca, valga del già citato Bernardino de Sahagún la monumentale Historia general de las cosas de Nueva España, e all'indagine scientifica, come il padre José Acosta che nella Historia natural y moral de las Indias rivoluzionariamente sostituiva all'autorità degli Antichi l'esperienza.

Cortés aveva rappresentato, nella conquista del Messico, una scaltra adesione agli interessi imperiali di Carlo V, con i quali si identificavano i suoi personali, come si constata agevolmente dalle Cartas de relación, ma Garcilaso el Inca metteva coraggiosamente in discussione tali interessi, mentre Lope de Aguirre, personaggio macchiatosi di molti delitti, ribelle alla Corona, polemico con Filippo II e in guerra dichiarata con lui, doveva dare inizio, se vale l'interpretazione moderna di Miguel Otero Silva, alla lotta per l'emancipazione.

Storia e letteratura documentano per tal modo, in Ispanoamerica, fin dall'inizio, un dissidio con il potere non puramente episodico. La nuova società che si andava formando e che con il passare del tempo si sarebbe mostrata sempre più inquieta, avrebbe volto le sue aspirazioni alla completa indipendenza. Il mondo coloniale, agitato da numerose ribellioni, sempre soffocate nel sangue, continuamente insidiato dall'esterno da nazioni come l'Inghilterra, la Francia, l'Olanda, nemiche e rivali della Spagna, sottoposto a continui riassestamenti in conseguenza di guerre disastrose in Europa, si allontanava sempre più dal potere peninsulare.

L'avvento al trono spagnolo nell'epoca napoleonica di un re straniero, Giuseppe Bonaparte, diede motivo alle colonie americane per un'esperienza di autonomia in nome di una formale lealtà al monarca prigioniero di Napoleone, esperienza dalla quale non recederanno se non per breve tempo durante la restaurazione. La Francia fornirà le armi ideologiche: la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e il Contratto sociale. Voltaire e Rousseau divengono presto gli idoli dell'America ispana colta del secolo XVIII: proibiti, e perciò ancor più letti e commentati nella clandestinità, i loro scrìtti orientano il pensiero indipendentista. Nel 1792 l'abate peruviano Juan Pablo Viscardo indirizza dall'esilio una Lettre aux espagnols américains difendendo con ragioni giuridiche il loro diritto all'indipendenza e riprovando duramente la rassegnazione allo status quo. Né varranno le misure riformatrici in extremis di un sovrano illuminato come Carlo III di Borbone ad evitare il distacco delle colonie dalla madrepatria.

Sarà Simón Bolívar a realizzare il sogno indipendentista e Olmedo lo canterà epicamente. Ancora nel secolo XX Neruda celebrerà il Libertador e Asturias comporrà un «Credo» in onore di questo «figlio d'America», che immagina «ritto presso Dio». Rappresentazione esaltante e ancor più se la si confronta con l'immagine dell'uomo ormai finito, che non molti anni fa ci ha dato Gabriel García Márquez, nel romanzo El general en su laberinto, visione toccante, ugualmente grandiosa di un uomo eccezionale, distrutto dalla delusione e giunto alla fine dei suoi giorni:

vide dalla finestra nel cielo il diamante di Venere che se ne andava per sempre, le nevi eterne, il rampicante nuovo le cui campanule gialle non avrebbe visto fiorire il sabato seguente nella casa chiusa per il lutto, gli ultimi fulgori della vita che mai più, per i secoli dei secoli, sarebbe tornata a ripetersi.



Gli eventi storici si riflettono sull'orientamento del gusto e nell'espressione artistica. Contro il predominio della letteratura spagnola, intrisa positivamente di italianismo, soprattutto nel Rinascimento, e dopo i fasti del Barocco, la letteratura francese diviene nei secoli XVIII-XIX riferimento e modello per l'espressione americana, arricchendone il già accentuato meticciato.

La Nouvelle Héloïse favorisce la manifestazione di una sensibilità nuova, che le opere di Bernardin de Saint-Pierre e di Chateaubriand ispirano. Il Romanticismo si orienta soprattutto sul modello della Francia, benché autori e testi di aree geografiche europee diverse pure influiscano: i Canti di Ossian, i poemi di Young, di Thomas Gray, di Byron.

Un caso singolare è rappresentato da Victor Hugo, che godrà di grande favore fin ben addentro al secolo XX: se il venezuelano Andrés Bello traduce nel secolo XIX, Laprière por tous, l'orma del poeta francese si imprime stabilmente anche in Neruda, il quale ancora ne Las piedras de Chile gli rende omaggio, come a colui che più ebbe parte nella sua formazione; per lui immagina una tomba alle rive dell'Oceano, le cui acque lambiscono la sua casa di Isla Negra, dove per i secoli dei secoli l'onda e le alghe marine l'avvolgano in una carezza.

Non meno rilevante, naturalmente, nel romanticismo ispanoamericano è di nuovo la presenza italiana: del Foscolo, quello dei Sepolcri e delle Ultime lettere di Jacopo Ortis; del Manzoni, la cui ode alla morte di Napoleone, «Il 5 Maggio», venne tradotta e imitata centinaia di volte, ma presente anche con le tragedie e / promessi sposi; e poi Vico, il Beccaria e tanti altri di cui risulterebbe prolisso l'elenco. Un italianismo che agli inizi dei movimenti indipendentisti aveva visto il teatro di Alfieri fungere non di rado, come in Argentina, da motore della rivolta.

Quella ispanoamericana è una letteratura aperta a tutte le altre letterature, dalle quali trae vigore di originalità. Il timido inizio del romanzo in Ispanoamerica avviene all'insegna della letteratura francese: María, del colombiano Jorge Isaac, segue le orme di Atala e René, ma con una originale immersione nella realtà americana. Poe sarà più tardi modello per il genere fantastico rioplatense, influirà su autori come l'argentino Leopoldo Lugones e l'uruguaiano Horacio Quiroga, né cessera di essere presente in uno scrittore così autenticamente originale come Borges. Allo stesso modo, in epoca modernista, lo era stato per il nicaraguense Rubén Darío e il colombiano José Asunción Silva, anche se il Modernismo, nella poesia soprattutto, deve molto alla Francia del Parnasse e del Simbole, mentre nella prosa più deve a D'Annunzio: Silva si ucciderà con al capezzale Il trionfo della morte.

Calmatesi le passioni, raggiunta l'indipendenza, l'atteggiamento verso la letteratura spagnola muta gradualmente. La narrativa segue, con il peruviano Ricardo Palma il costumbrismo, mentre al realismo di Pérez Galdós si ispirano il cileno Alberto Blest Gana e il messicano Manuel Altamirano, per citare nomi eminenti. Nella poesia post-romantica sarà Bécquer il modello ispiratore e la sua influenza giungerà addirittura a poeti rilevanti del secolo XX, come Gabriela Mistral e lo stesso Neruda. Ma anche in questi scrittori sarà viva la caratteristica protestataria, la presa di posizione in favore dei loro popoli, di fronte al prepotere politico, straniero o nazionale, alle differenze razziali, alla miseria. Vi darà un sostanziale contributo il naturalismo, sulle orme di Zola, anche se, realizzato da scrittori di condizioni più che agiate, inseriti nella società dominante, come il messicano Federico Gamboa e il franco-argentino Eugenio Cambacerés, subirà distorsioni che porteranno all'esaltazione della società alta dei rispettivi paesi. E tuttavia questi scrittori hanno il merito di aver richiamato l'attenzione sulle piaghe della società, sulla vita miserabile degli strati infimi della popolazione inurbata, confinata nelle periferie di città ormai sulla via di trasformarsi in disumane megalopoli.

Non meno porteranno l'attenzione sulla società contadina la poesia e il romanzo gauceschi, indagando la particolare mentalità degli abitanti delle grandi aree rurali, dediti all'allevamento del bestiame, come avviene nel Don Segundo Sombra dell'argentino Ricardo Güiraldes, e nel poema Martín Fierro, del pure argentino José Hernández.

Nei primi decenni del Novecento ha luogo un lungo momento di esperienze avanguardiste e di nuovo sarà Parigi il punto di riferimento, anche se nelle varie realizzazioni americane, soprattutto in America Centrale, in Messico e nelle Antille, ma anche in Argentina, ha parte notevole e prolungata influenza fin verso la metà del secolo il futurismo di Marinetti.

Il secolo XX è, tuttavia, in Ispanoamerica, il secolo soprattutto della narrativa impegnata: sorge in questo periodo il romanzo della rivoluzione messicana -del 1910-, che ha in Mariano Azuela, autore noto per Los de abajo, il suo maggior esponente, ma presto nuovi scrittori costellano il panorama americano, dal colombiano Eustasio Rivera, autore de La vorágine, al venezolano Rómulo Gallegos, cui si deve Doña Barbara, scrittore che dà inizio alla prima grande stagione narrativa e che persino un autore come il Nobel Miguel Ángel Asturias considera suo maestro.

Con il guatemalteco Asturias ha inizio la seconda grande epoca del romanzo americano, all'insegna del «realismo mágico». In precedenza, tuttavia, si sviluppa una corrente indianista, rappresentata soprattutto dall'equadoregno Jorge Icaza, autore di Huasipungo, e dal peruviano Ciro Alegría, noto per i romanzi Los perros hambrientos e El mundo es ancho y ajeno, corrente influenzata dalla grande narrativa russa, che mira a denunciare la situazione disperata in cui vegeta la parte indigena della popolazione dei rispettivi paesi. Più tardi in Perú sarà José María Arguedas il continuatore della corrente, con altri raggiungimenti artistici.

E' tuttavia con gli scrittori del «realismo mágico» che la narrativa ispanoamericana raggiunge la maggiore età, sfuggendo alle influenze esterne più marcate, adottando tecniche espressive nuove, che fanno tesoro dei raggiungimenti di Kafka come di Joyce, di Dos Passos come di Faulkner e di altri autori nordamericani, ma solo delle tecniche, che pure innovano originalmente. La materia sostanziale è americana; essa affonda con Asturias nella magia del paesaggio, nelle civiltà precolombiane e nei loro miti, per denunciare, in Hombres de maíz e nella trilogia bananiera, la condizione infelice dell'uomo sulla terra, sottoposto allo sfruttamento del capitale straniero, oppresso da crudeli regimi dittatoriali, come denunciano in El Señor Presidente.

Per il cubano Alejo Carpentier il mondo magico sarà la storia americana, l'animismo negro, presente in El reino de este mundo, e la prima, illusoria conquista della libertà, ai tempi di Napoleone, con l'assunzione del potere da parte del negro Henri Christophe, autore di una nuova e crudele dittatura. Lo denuncerà anche l'equadoregno Demetrio Aguilera Malta, e molti altri scrittori lo seguiranno.

E la Spagna? La letteratura ispanoamericana, in particolare la poesia modernista, esercita tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento una indubbia influenza innovatrice sulla poesia e sulla prosa spagnole. Perciò Max Henríquez Ureña ha parlato di «ritorno dei galeoni». Senza l'esperienza modernista non è concepibile la grande poesia ispanica del secolo XX, da Juan Ramón imenez e Antonio Machado, alla prestigiosa «Generazione del '27». Alberti, Lorca, Cernuda, Aleixandre, ecc. Ma il cordone ombelicale, pur sulle sostanziali differenze e originalità, si rinsalda concretamente con la guerra civile del '36, quando grandi personalità delle lettere e del pensiero si rifugino nei paesi di quella che fu l'America spagnola in Messico, nelle Antille, in Venezuela, nel Cile e soprattutto in Argentina. Il mondo ispanico si ricongiunge, ora non nella dipendenza, ma su un livello di assoluta parità. Ed è quando la letteratura ispanoamericana raggiunge gli esiti più alti: nel romanzo, nella poesia e nel teatro, oltre che nella saggistica Valga per tutti l'auge della narrativa, nella quale ancora oggi, nonstante nuove e promettenti leve, dominano i nomi de Onetti, Sábato, Fuentes Cortázar, Vargas Llosa e García Márquez, i cui romanzi, El astillero, Sobre héroes y tumbas, La muerte de Artemio Cruz, Rayuela, La ciudad y los perros, Cien años de soledad, rispettivamente, sono testimonianza di una creatività americana pienamente autonoma e innovatrice.

Come del resto lo è la poesia di Neruda, di Vallejo, di Borges, di Octavio Paz, di José Emilio Pacheco, di Jaime Sabines di Homero Andji...; lo è il teatro dei messicani Xavier Villaurrutia, Rodolfo Usigli, Emilio Carballido, dei cubani Antón Arrufat e José Triana...; lo sono la saggistica e la filosofia prestigiosamente rappresentate da Octavio Paz e da Leopoldo Zea, da poco scomparsi.

Molti sarebbero i nomi da menzionare, ma risulterebbe esercizio tedioso. Vale piuttosto la pena di ribadire, attraverso parole remote di Miguel Ángel Asturias, la caratteristica dominante della letteratura ispanoamericana, quella che più ha richiamato adesione nei lunghi anni della mia attività. Dichiarava:

Siamo scrittori rivoluzionari, totalmente impegnati con i nostri popoli, con la loro causa, con la loro lotta, con la loro fame, con l'ingiustizia alla quale sono sottoposti, con lo sfruttamento di cui sono oggetto con la loro condizione miserabile in mezzo a terre opulente, senza essere iscritti ad alcun partito, senza un'attività politica determinata [...]. E' la libertà con cui lo scrittore nostro si muove nel ampio campo della vita ciò che garantisce le possibilità di vigilante, di nemico inflessibile dei nemici dei nostri popoli, la condizione di non contaminati dagli allettamenti dei potenti, dai nuovi biondi conquistatori, e sicuri di scrivere per qualche cosa di più che fare letteratura o poesia, per formare non solo i nostri popoli, ma una coscienza di solidarietà umana intorno a essi [...].



E contemporaneamente che si eserciti profondo lo scandaglio nella complessità dell'individuo, come la letteratura ispanoamericana ha fatto da Emilia a Neruda, a Cortázar, a Paz, allo stesso Borges, per quanto la figura di quest' ultimo possa, per certi motivi apparire contraddittoria. La perplessità di fronte al presente e al futuro è parte della problematica americana. La traiettoria è lunga; inizia con la poesia dell'area azteca. Tormenta già i cantori indigeni il problema della vita, della morte e di cosa attende oltre essa: «Perché siamo venuti sulla terra?», «Quale ricordo rimarrà di noi?», «Dove andremo a finire?».

Octavio Paz consegnava che l'uomo vive tra due parentesi, e César Vallejo prospettava la morte come un unico colpo consegnato al tamburo di un revolver, che no sappiamo quando farà centro. Neruda a sua volta rendeva drammatica la domanda relativa alla vita: «Se vivere è un cammino che conduce alla morte, questa dove ci conduce?» A sua volta Borges si intratterrà sulla teoria dell'eterno ritomo. E un apocalittico Homero Aridjis presenterà il futuro come epilogo drammatico del mondo.

Ma una volta ancora Neruda recherà al terrorizzato lettore una prospettiva fortificante, seguendo l'impegno assunto di «rinverdire costantemente la speranza», e lo farà nei Cantos ceremoniales, celebrando la terra come madre generosa verso gli uomini, la «maledetta progenie» che tuttavia sola costituisce la luce del mondo. Ne La espada de fuego, davanti alla distruzione atomica del mondo, fonderà sull'amore e sul lavoro la nuova speranza.

E' questa l'attrattiva profonda esercitata su di me dalla letteratura cui mi sono dedicato.

Dedico la distinzione che oggi mi viene fatta dall'«Orientale» agli amici ispanisti di questa Università e ai miei discepoli nel tempo, conscio della fortuna di averli avuti.





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