—39→
II. Quevedo nell'ultima poesia di Jorge Carrera Andrade, Octavio Paz, Pablo Neruda e Jorge Luis Borges
Le considerazioni e i rilievi che sono andato facendo intorno alla presenza di Quevedo nella poesia ispano-americana del secolo XX, raccolti nello studio che ha per titolo Quevedo nella poesia ispano-americana del '900, apparso nel 1967, se non richiedono ulteriori precisazioni per quanto riguarda César Vallejo, la totalità della cui opera era già stato dato di esaminare, hanno bisogno di un nuovo discorso per ciò che concerne gli altri poeti. Infatti sia Carrera Andrade che Octavio Paz, sia Neruda che Borges hanno continuato la loro attività poetica e in essa la presenza dello scrittore spagnolo del Seicento non è scomparsa, anzi in taluni casi vi è accentuata. La mia attenzione in queste pagine si volge, perciò, senza intenzione di tornare sul già detto, a quanto i poeti menzionati sono andati pubblicando in epoca successiva all'apparizione del mio studio.
Carrera Andrade pubblica nel 1968 una raccolta poetica dal titolo significativo, Poesía última102: vi compaiono alcuni quaderni di poesia apparsi anteriormente, da Hombre planetario a El alba llama a la puerta. Non si tratta, perciò, di una novità assoluta, ma il libro costituisce un punto di partenza per la riconsiderazione di una poesia che ora presenta —40→ in modo più omogeneo una stagione «ultima», ma non finale, della creazione del poeta equatoriano.
In taluni gruppi
di liriche del volume citato il clima sembra più che mai
propizio all'accentuazione della nota quevedesca. Così, dopo
l'inno d'universale fratellanza di Hombre planetario e lo sfolgorio cromatico
di Floresta de los
Guacamayos, Crónica de las Indias (1965) riesumando il
tragico momento della guerra civile nel Perù vicereale, ai
tempi di Gonzalo Pizarro e di La Gasea, accentua toni cupi le cui
origini abbiamo già individuato in Carrera Andrade
nell'adesione a Quevedo. Il poeta condanna il ribelle Gonzalo,
mentre celebra nel rappresentante regio -il sacerdote La Gasea che
con abile politica riuscì a isolare il Pizarro e a vincerlo-
«el emisario de la vida
eterna»
; Gonzalo Pizarro, al contrario,
è un «rey sin
reino»
, un capitano senza soldati,
possessore di un unico tesoro, il sepolcro: «aliado sin ventura de la
muerte, / potentado del único tesoro: su
sepulcro»
103.
Il clima
quevedesco è chiaramente richiamato dai versi citati, il
primo dei quali si presenta come variazione di un precedente verso
di Carrera Andrade, presente in «Tres estrofas
al polvo», di Lugar de origen, là dove la polvere
era definita «aliado
innumerable de la muerte»
, nel senso della
sua azione corrosiva sugli esseri e sulle cose. Nel verso citato di
Crónica de las
Indias il significato, evidentemente, non è lo
stesso: Gonzalo Pizarro è, qui, solo uno sfortunato e
involontario alleato della morte; ma il punto di partenza appare
identico, in quanto il ribelle finisce per assumere la stessa
funzione distruttrice della polvere, riconducendo chiaramente al
Quevedo de «El
escarmiento»104,
come al poeta spagnolo riconduce, sia pure non per contatti
concreti, l'ultimo verso in cui il sepolcro è indicato quale
unico bene dell'uomo. Si ricordi il più volte citato sonetto
«Signifícase la
propia brevedad de la vida, sin pensar y con padecer, salteada de
la muerte»
, e la terzina finale:
|
I contatti con
Quevedo infittiscono ne El alba llama a la puerta (1966). In
«Jornada existencial»,
appartenente al gruppo di liriche «El reino efímero», la
perdurabilità umana è vana ricerca e acquista i
contorni immateriali della Florida mitica e dell'Eldorado
irraggiungibile. Il regno «inencontrable», il regno
«suspirado» sottolinea nei
suoi contorni immateriali il tragico destino dell'uomo e dei suoi
limiti106.
L'immagine quevedesca, già sottolineata in Canción de gesta di Pablo
Neruda, del trascorrere del tempo come aratura della vita
umana, si presenta anche qui, in forma originale, ma con identico
significato: «El arado del
sol ara mi frente / en labranza de días y de años
sucesivos»
107.
Si tratta sempre della «agricultura de la
muerte»
espressione di Quevedo nella
«Carta CLXIX» diretta a
Lucilio:
«Cualquier tierra, oh Lucilio, es nuestra madre: ¿cuál regazo nos hará más cariñosa acogida? Ella nos cobra, pues nos debemos a ella. No defraudemos la agricultura de la muerte: semilla es nuestro cuerpo para la cosecha del postrero día; mejor cuenta da de la siembra la tierra que las piedras; más descubren nuestra vanidad las columnas y pirámides que cubren nuestros güesos: acábese con la vida la locura, que aun fuera bien no hubiera empezado en ella [...]»108. |
La coscienza del
proprio finire progressivo conduce Carrera Andrade alla scoperta
del luogo ove risiede veramente l'Eldorado: «El país de
Eldorado está en nosotros
mismos»
109.
L'uomo è un «rey
desnudo» e il poeta lo —42→
scopritore della regione ultima che si libra tra i confini
del vento e della notte:
|
La morte, quindi,
per Carrera Andrade come per Quevedo, è meta ultima
dell'uomo. Il processo di smaterializzazione delle cose, la
rivelazione di una vanità essenziale del tutto si fa
più radicale ne «El reino de las
cosas»; l'immagine della morte si manifesta
nelle forme che si disfano: «todo se
deshace»
111.
La rugiada spira salendo al cielo; la rosa «es un ocaso
reducido»
112.
Il senso del trascorrere micidiale del tempo torna a manifestarsi,
in un'immagine che richiama il fiume di Eraclito, così caro
a Quevedo: «Las aguas de
los años cubren todas las cosas»
.
Ampliamento del Salmo XVII dell'Heráclito cristiano, la cui prima
affermazione è precisamente il potere distruttore del tempo:
«Todo tras sí lo
lleva el año breve / de la vida mortal
[...]»
113.
Ma nella medesima lirica c'è anche un altro richiamo
concreto alla transitorietà delle costruzioni umane, di
lunga tradizione ispanica, ma più volte divenuto tema di
Quevedo; scrive Carrera Andrade:
|
—43→
Il ricordo della
«Canción» di Rodrigo
Caro alle rovine di Itàlica è certo presente nel
poeta equatoriano, ma soprattutto lo è la considerazione
della rovina delle cose quale appare dal Salmo
XVII dell'Heráclito cristiano di Quevedo115.
Forse ancor più vicino è però l'eco del
Salmo XII in cui il poeta
spagnolo passando in rassegna le grandezze defunte di Cartagine, di
Gerusalemme, di Roma -della quale «apenas se defiende la
memoria / de las escuras manos del olvido»
-
e di Sagunto, esprime, a proposito della sorte di quest'ultima
città, un concetto simile a quello di Carrera Andrade:
|
Ancora un punto di
contatto tra il passo citato del poeta di cui mi sto occupando e la
poesia di Quevedo si potrebbe rilevare nella silva «Roma
antigua y moderna» dei poemi morali,
soprattutto nel verso 84, in cui si sottolinea il ritorno della
città alla condizione primitiva, anteriore alla sua
grandezza: «vuelven a ser
ribera las riberas»
117.
Nella lirica
«No hay», del secondo
gruppo di poesie della stessa raccolta, riunite sotto il titolo
«Estación
penúltima», l'immagine di morte si
identifica con quella di un deserto totale che circonda l'uomo. Le
cose, nemmeno i libri, non hanno più senso per Carrera
Andrade, di fronte all'avanzare della morte, e una disperazione non
certo quevedesca rimanda concretamente al suono di morte che
Quevedo sente nel cuore e che egli manifesta nel sonetto in cui
«Conoce la diligencia con
que se acerca la muerte...»
118;
il suono «formidable y espantoso» che a Quevedo
—44→
annuncia l'avvicinarsi dell'ultimo giorno, è sentito
dal poeta ecuatoriano come ossessivo tamburo che non ammette
scampo:
|
Ho accennato sopra, per la stessa lirica, al tema del libro, oggetto al quale Carrera Andrade non dà più alcun significato positivo:
|
E ancora, nella conclusione del poema:
|
Il tema riconduce, per contrasto, ancora una volta a Quevedo, al noto sonetto «Desde la torre»122, in cui afferma il valore imperituro, la vita perenne delle opere scritte, lasciate dai saggi che più non esistono. Il pessimismo di Carrera Andrade in questo suo momento esistenziale coinvolge invece tutte le cose.
Nel terzo gruppo
di liriche raccolte sotto il titolo «Memorias de nuestro
planeta» l'Asia torna a dare al poeta
equatoriano una lezione fondamentale di morte, di limite assoluto
dell'uomo nella sua fragilità. Soprattutto ne
«El —45→
caballo de
terracota»123,
sotterrato per secoli «con
su ajuar funerario»
, si concreta della Cina
un'immagine di morte che nella sua inquietante sostanza riconduce
alla polvere di Quevedo; la strada della seta biancheggiante di
«huesos
humanos»
124
-non vale la pena qui di richiamare materialmente i molti passi in
cui Quevedo allude alle ossa125-
e l'allusione al tramonto delle potenze terrene in ciò che
resta di Kublaikán concretano il richiamo quevedesco:
|
Ciò si
verifica anche per quanto riguarda la distruzione dei simboli delle
grandezze defunte: «Las
estatuas doradas / cayeron en el polvo para
siempre»
127.
La polvere cui è ridotto Kublaikán riconduce al verso
di Quevedo dove, ne «El
escarmiento», definisce l'uomo «polvo soberbio y
presumido, / ambiciosa ceniza, supultura /
portátil...»
128;
mentre per il tramonto delle potenze umane, in particolare per la
distruzione dei segni funebri che vanamente pretendono di
prolungare nel tempo la falsa grandezza del defunto, un contatto
sembra possibile con il sonetto del poeta spagnolo che «Contiene una elegante
enseñanza de que todo lo criado tiene su muerte de la
enfermedad del tiempo»
129,
là dove afferma che «también para el sepulcro hay
muerte»
130.
Né può sembrare illegittimo un avvicinamento, per i
versi citati, al Salmo XI
dell'Heráclito
cristiano, dove Quevedo afferma di non invidiare «la púrpura ni el
oro, / que en mortajas convierte / la trágica guadaña
de la muerte»
131.
—46→
Con legittima pertinenza possono essete ricordati, a questo
proposito, anche taluni versi della silva «A los huesos de un
rey que se hallaron en un sepulcro,
ignorándose»; Quevedo vi stigmatizza la
vanità del ricordo umano nelle iscrizioni e nei monumenti,
ed esclama:
|
«Sombra en el muro», lirica
appartenente al quarto gruppo riunito sotto il titolo
«El alba llama a la puerta»
-che si estende a tutta la raccolta-, offre di nuovo motivi
quevedeschi nella considerazione della presunzione del poeta di
comprendere nella propria testa tutto il mondo, mentre «ciudades, países,
animales y flores / ardieron consumidos en cenizas / por la llama
del tiempo»
133.
Non v'è dubbio che, nonostante l'originalità della
concezione, Quevedo è presente nel poeta equatoriano, sia
genericamente, come cantore della distruzione ignea e della
riduzione delle cose a cenere, sia più particolarmente in
passi chiaramente identificabili, come l'immagine delle torri di
Roma incendiate da Nerone e ridotte a cenere, cantate nella
silva
«A Roma antigua y moderna»:
«abrasadas del fuego,
sobre el río, / torres llovió en cenizas viento
frío»
134.
La «llama del
tiempo»
corona, nella poesia di Carrera
Andrade originalmente il tema quevedesco. La lirica conclude con un
finale di piena autonomia nell'affermazione di un valore della vita
umana in sé, pur nella sua labilità, rappresentato
dalla serie di frutti che potrebbe -o avrebbe potuto - dare.
Nel 1970 Jorge
Carrera Andrade pubblica il Libro del —47→
destierro135,
espressione di un momento acuto di sofferenza nell'intermittente
ripetersi, nella sua esperienza, di una condizione dilaniante,
l'esilio. Torna in molti passi del poema il senso acuto del
«desgaste» delle cose, e in
esse, della vita del poeta; i colori e le forme terrestri gli si
presentano «gastados por
la arena de los años»
136.
Le immagini, i vocaboli, riconducono ancora a Quevedo; così,
il considerare in sé il progredire della morte: «Cada día me alejo
de mí mismo»
137;
che se per un lato richiama il quevedesco «se huye la vida paso a
paso»
de «El
escarmiento»138,
meglio si avvicina all'espressione dello stesso poema:
«vivo como hombre que viviendo
muero»139.
Ma il poema IX del Libro del destierro è
tutto un richiamo a Quevedo e, per quanto riguarda la poesia
precedente di Carrera Andrade, al poema «La
alquimia vital». Contemplando se stesso, in un
singolare sdoppiamento, egli vede l'uomo che vive materialmente, il
poeta, e quello che dentro di lui attende silenzioso di
intraprendere, in sua compagnia, il viaggio finale:
|
Il punto di
riferimento di questo poema nella poesia di Quevedo può
essere il sonetto in cui «Signifícase la propia brevedad de la
vida, sin pensar y con padecr salteada —48→
de la muerte»
141,
nella terzina finale, ma anche «El
escarmiento», nel verso «vivo me soy sepulcro de
mí mismo»
142
e, della stessa composizione, il passo compreso tra i versi 97 e
112, in cui il poeta spagnolo afferma di essere in attesa che la
morte «prevenida»
sciolga
dalle sue vene l'anima, «que
anudada está en la vida»
. Carrera
Andrade non menziona direttamente l'anima, ma l'«altro»
Carrera Andrade, in attesa di
quello esteriormente gesticolante, è l'anima.
Nel poema XII del Libro del destierro il
concetto del trascorrere del tempo, del passare dell'uomo, figlio
di un tempo immobile che lo matura per la morte, è un
ulteriore richiamo a Quevedo. L'originalità del poeta
equatoriano si afferma al disopra dei richiami, generici o
concreti, che rimandano al canto della brevità della
vita143,
al già citato passo de «El
escarmiento» -«últimamente el
tiempo ha de heredarte»
144-,
alla funzione distruttrice del tempo: «Todo tras sí lo
lleva el año breve / de la vida
mortal...»
145.
In contrasto con il concetto quevedesco della corsa del tempo -
«Bien te veo correr,
tiempo ligero»
146-
Jorge Carrera Andrade ne afferma l'immobilità sul
trascorrere umano, come già Neruda, ma non la sua
indifferenza, bensì l'intervento «artero» nel maturare
l'uomo per «la muerte
agricultora»
, nuovo e circostanziato
richiamo, questo, alla «agricultura de la
muerte»
della Carta
CLXIX di Quevedo già citata. Scrive infatti il
poeta:
El
tiempo no transcurre, nosotros transcurrimos |
L'eco dei passi
della morte risuona ancora una volta, come per Quevedo, nel cuore
del poeta: «En el polvo
se marcan las huellas de la muerte / sobre mi corazón suenan
sus pasos»
148.
Il richiamo all'ora «negra y fría»
,
colma di timori e d'ombre, che il poeta spagnolo manifesta nel
sonetto in cui «Conoce la diligencia con
que se acerca la muerte...»149,
è evidente, anche se Quevedo interpreta positivamente
l'avvento della morte, come liberazione-vita, mentre Carrera
Andrade ne denuncia il senso drammatico di fine.
Nel 1972 Jorge
Carrera Andrade dà alla stampa i Misterios naturales150;
vi compaiono anche il Libro del destierro, le Estaciones de Stony Brook -che non
offrono spunti per il nostro argomento-, Quipos,
El combate
poético e Paraíso de los ancianos. Precede questi
poemi, o gruppi di poesie, una lirica per noi interessante,
«Nombro la piedra»; in essa
ritorna il tema dell'orologio divoratore del tempo: «El reloj roe el pan
infinito del tiempo»
151.
Quevedo definí le ore «sepultureras»
152,
parlò dell'«hora
irrevocabile»
153
e nel «Reloj de
sol» affermò che l'orologio «los pasos de la luz le
cuenta al día»
154.
Il concetto è il medesimo, svolto, tuttavia, dal poeta
equatoriano in una dimensione di più ampia poesia. Nella sua
finitezza ogni cosa conclude con l'affermazione della
nullità dell'uomo. Nel —50→
terzo «Quipos» Carrera Andrade riscopre, su
questa desolata conclusione, la natura materna della morte, come
già Octavio Paz, e come prima ancora lo stesso Quevedo, che
la vedeva preparare il suo bene155,
convinto che essa fosse ritorno alla vera vita156.
Scrive il poeta equatoriano:
|
Ne
«el escarmiento» Quevedo
aveva affermato: «muriendo naces y viviendo
mueres»
158.
L'onnipresenza quevedesca della morte riecheggia anche nel IV «Quipos», richiamando in sintesi tutta la poesia precedente di Carrera Andrade, da «El gallo de la veleta» della cattedrale dell'infanzia, al mondo verde che compendia simbolicamente la spiritualità della patria:
|
Nel poema
Paraíso de los
ancianos ricompare il concetto del tempo distruttore:
«En cada reloj / un
minero invisible cava una
sepultura»
160.
Sono gli accenti più cupi di —51→
Quevedo. Il contatto di Jorge Carrera Andrade con il grande
cantore ispanico del nostro limite non poteva mantenersi più
profondo, sempre, s'intende, su un piano creativo di estrema
originalità.
Anche per Octavio Paz Quevedo rimane presenza intimamente operante. Un esame della poesia che egli riunisce nel 1969 in Ladera Este161 lo attesta. Nel libro compare una messe poetica che va dal 1962 al 1968, riunita sotto i titoli Ladera Este (1962-1968), Hacia el comienzo (1964-1966) e Blanco, poema complesso, quest'ultimo, concluso a Nuova Delhi nel 1966 e già edito a Città del Messico nel 1967162.
Di alcune liriche comprese nel libro cui mi riferisco già ho trattato, in altre pagine dedicate al Paz, come di testi allora inediti che il poeta mi aveva favorito. È il caso di «Balcón», di Ladera Este. Disagevole è ora seguire una cronologia interna, ma è comunque evidente che l'apparente soluzione positiva al problema della vita e della morte, manifestata dal poeta messicano in Viento entero163, quale risultato ultimo dell'esperienza indiana, torna in discussione. Le inquietudini metafisiche presenti in «Balcón» si rifanno vive e a questa luce più che l'aspetto tranquillizzante della morte, da me segnalato precedentemente, si impone alla nostra attenzione un susseguirsi di note inquietanti che pongono continuamente in primo piano col dramma del poeta quello dell'uomo. In «Balcón», è vero, la vita «verdadera» assume l'aspetto della morte:
|
—52→
Si noti che nella
versione definitiva è scomparso l'aggettivo
«adorable», applicato nella
prima versione al «rostro» della morte; nella
lirica il clima si modifica e quevedescamente prende il sopravvento
la città in un valore simbolico che ripropone il dramma
dell'uomo, solo in un mondo che da ogni parte gli presenta il suo
limite, inquietantemente sospeso com'è
nell'immobilità che lo circonda, come appunto è il
caso di Nuova Delhi, «Dos
sílabas altas / Rodeadas de arena e
insomnio»
165.
Il concetto del
limite, il simbolo della sabbia, il tempo che regge l'uomo tra le
sue mani vuote166,
la polvere, «Polvo
iracundo que despierta
167,
esercitano sul lettore un nuovo e prepotente richiamo a Quevedo. A
questa luce anche la reminiscenza di Góngora, il primo verso
delle Soledades, «Pasos de un peregrino son
errante»
, acquista il significato di una
denuncia della limitatezza umana, dell'insignificanza dell'uomo; e
mentre il tempo esperimenta un'ansia «de
encarnación»
168
la fragilità di cui l'essere è conscio lo conduce a
percorrere la propria fine, in un'attesa indefinita, oltre se
stesso: «Más
allá de mí mismo / En algún lado aguardo mi
llegada»
169.
Accenti che
conducono all'ispanico cantore del tempo e della morte compaiono
anche in altri poemi. Nella lirica dedicata a Amir Khusrú
-poeta e musico, fondatore della poesia in lingua urdu-,
«Tumba de Amir
Khusrú», vi è una definizione del
poema che richiama espressioni di Quevedo riferite all'uomo:
«Todo poema es tiempo y
arde»
170.
Impressioni vaghe, non documentabili materialmente, ma il senso di
finitezza e di vita, al contempo, avvicina al concetto quevedesco
dell'uomo e anche a immagini proprie della poesia nerudiana, come
«Entierro en el Este» della
—53→
prima Residencia en la tierra, anche se con sviluppo
autonomo.
Il vasto repertorio della poesia funebre di Quevedo, i numerosi «túmulos» barocchi della sua poesia, vengono immediatamente evocati nella sensibilità del lettore dalle numerose contemplazioni delle tombe indiane presenti nella lirica di Octavio Paz. Si vedano a questo proposito i poemi «En los jardines de los Lodi», e «El día en Udaipur». Ma in Paz opera, forse, piuttosto, un gusto genericamente barocco della tomba, dei mausolei bianchi sospesi tra cielo e terra, dai quali, simbolo di valore metafisico, si levano d'improvviso, come anime, voli d'uccelli. Lo si veda nel citato poema dedicato ai mausolei della dinastia Lodi, che regnò tra il 1451 e il 1526, a Nuova Delhi:
|
Non v'è dubbio, l'originalità di Octavio Paz si afferma, in questa lirica, per la novità della rappresentazione, oltre che per il valore di sintesi e l'aspetto formale. I sonetti tombali di Quevedo alludono sempre alla miseria dell'uomo, alla vanità della sua superbia, al livellamento giustiziere che opera la morte sulle grandezze terrene, alla labilità del ricordo di chi fu. Ma il Paz dà alle sue poesie di morte una tensione metafisica diversa, insinua il dubbio drammatico, il sospetto intorno all'esistenza di qualcosa oltre la morte, che non definisce. Nella sospensione meditativa, tuttavia, si fa largo un senso di gelo, lo stesso che scaturisce dai marmi cantati dal poeta spagnolo.
Si potrebbero
sottolineare genericamente altri punti di contatto tra la poesia
del Paz e quella di Quevedo. In «Aparición», ad
esempio, rivive la quevedesca equazione uomo=polvere172;
in «Pueblo»
compare un tempo simultaneamente —54→
materiale e inconcreto, la «pietra» come simbolo
di impenetrabilità, d'incomunicazione173;
la «danza de las
horas»174,
simbolo della fragilità umana, compare in «Vrindaban»; mentre il
quevedesco «muriendo naces y viviendo
mueres»175
è presente in versione originale nella lirica
«Madrugada al raso»:
«La vida que nace cada
día / La muerte que nace cada
vida»
176.
Nel gruppo di liriche riunite sotto il titolo Hacia el comienzo (1964-1968) si notano altre tracce di Quevedo. Nel già citato «Viento entero» l'affermazione di un presente «perpetuo» sottolinea un paesaggio, quello indiano, in cui lo squallore e la desolazione delle origini del mondo riconducono per taluni vocaboli, come «hueso» e «polvo»177, al poeta spagnolo. Nel «Cuento de dos jardines» la condanna dell'uomo si concreta nella lotta col tempo che conduce alla morte:
|
Il concetto è fondamentalmente il medesimo espresso più volte da Quevedo nella sua poesia: il tempo distrugge l'uomo, ma il Paz si avvale, qui, di un'immagine nuova e mostra l'uomo intento a una lotta vana contro di esso. La meccanicità dell'esistenza umana, dallo spuntare del giorno al giungere della notte, si manifesta nella «espiral de las horas»179, che in un certo senso richiama gli orologi meccanici quevedeschi e il concetto della perdita irrimediabile dell'uomo negli ingranaggi del tempo.
—55→Nello stesso poema l'esperienza indiana sembra condurre Octavio Paz a raggiungimenti più profondi nell'ordine metafisico, e se la morte continua a essere per lui qualcosa di affascinante -«O fascinación de la muerte»180- egli pare avvicinarsi, sia pure con concezione diversa d'ordine fideistico, a Quevedo, allorché scrive «Supe que morir es ensancharse, / Negarse es crecer»181. Ma il dubbio metafisico muove il verso del Paz permeandolo di una drammaticità sconosciuta a Quevedo; essa si manifesta nel buio che per il poeta messicano rappresenta la morte: «No sabemos hacia donde vamos»182; «¿Qué nos espera en la otra vida?»183.
In Blanco, attraverso la
complessa struttura del poema e la molteplicità dei
significati, Quevedo non scompare; egli è presente non solo
per la terminologia e per le immagini, per la professione di
polvere del poeta -«Polvo soy de aquellos
lodos»184-,
per l'espressione di una condizione umana prigioniera della morte e
del tempo -«Amordazado /
Por la conjuración anònima / De los huesos, / Por la
ceñuda pena de los siglos / Y los
minutos»
-185
ma per un verso, «las
altas fieras de la piel
luciente»
186
incorporato nel testo del poema e che lo stesso Paz denuncia in
nota appartenere al sonetto del poeta spagnolo «Traigo todas las Indias en la
mano»187,
ossia, più esattamente, a quello in cui celebra Lisi,
«Retrato de Lisi que traía en una
sortija»188.
Il significato del verso è mutato nella poesia di Octavio
Paz: per Quevedo significava, infatti, secondo l'interpretazione di
González de Sala, il firmamento -«El firmamento dice,
pues que trae también las estrellas»189-
—56→
e, nel chiarimento di Blecua, il segno del Toro190;
per il poeta messicano tale verso assume invece il significato di
manifestazione vitale dell'amore.
Un curioso contatto con un settore della poesia quevedesca, quello satirico, di cui non esiste traccia nei poeti studiati, è individuabile inaspettatamente nel poema che il Paz dedica a una vecchia, «Epitafio de una vieja», in Ladera Este191. Nella sinteticità dei versi rivive l'arguta vena del grande satirico del Seicento. Scrive il Paz della vecchia:
|
Si tratta di un esempio isolato, ma non per questo meno significativo, che richiama le numerose satire dedicate da Quevedo alle donne e vale ad attestare una più ampia gamma di contatti tra il Paz e il poeta spagnolo, anche se le note più costanti rimandano soprattutto al settore più serio della poesia quevedesca.
Per ciò che concerne Neruda la sua adesione a Quevedo non si attenua negli ultimi anni. Dal 1967 all'ultimo libro pubblicato prima della sua scomparsa, nel 1973192, il —57→ poeta cileno è andato approfondendo la nota che lo avvicinava a Quevedo, e la sua risonanza è viva anche nell'ultima stagione nerudiana.
Nel 1967 la
pubblicazione de La
barcarola193,
ultimo volume del Memorial de Isla Negra, presenta di nuovo Neruda
cantore del tempo e della morte, oltre che dell'amore. Anzi, egli
si sente spinto dall'amore a cantare la morte: «el contacto que induce a
mi sangre a cantar en la
muerte»
194.
Amore e morte furono i grandi ispiratori di Quevedo; Neruda gli
è vicino in questo, ma anche, nel libro citato, per
l'invettiva contro il danaro: sulla miseria del mondo egli
denuncia, infatti, la deificazione del «SantoDinero»195.
Un ripudio totale accomuna Neruda a Quevedo nell'additare
l'abiezione dell'individuo che del danaro ha fatto il proprio dio.
Il poeta spagnolo aveva mostrato il potere corruttore del danaro
nella famosa «letrilla» inclusa da Pedro
de Espinosa in Flores
de Poetas ilustres de España, «Poderoso caballero / es don
Dinero»196.
Ne La barcarola, tuttavia, il
tema della morte e del tempo sembrano imporsi su quello dell'amore.
La discesa distruttrice del tempo nell'uomo -nel poeta e
nell'amata- richiama soprattutto gli atteggiamenti impietosi che
esso assume in tanti passi della poesia di Quevedo: «hasta que la tierra
recoge tu cuerpo que ya no
florece»
197,
è un verso nerudiano che supera per significato addirittura
il maestro.
Ne Las manos del
día198
la presenza di questi accenti è confermata. Neruda vede se
stesso testimone di un momento difficile dell'umanità e nei
suoi libri osserva manifestarsi la vita di tanti altri uomini, di
tante mani che, come scrive in «El
olvido»199,
continuano a vivere. Nella lirica dal titolo «Es
así el destino», l'identità
quevedesca —58→
vita=morte, morte=vita, si afferma nel verso «la vida, es decir la
muerte: es decir, la vida»
200.
La tragedia del Viet-Nam ripropone alla sensibilità
nerudiana e nella sua poesia il tema della distruzione e della
morte, in accenti genericamente definibili quevedeschi, soprattutto
per il ricorrere insistente del vocabolo «huesos». Si veda la lirica
«En Viet-Nam»:
|
Ancora, per
divergenza questa volta, è possibile indicare un contatto
tra Quevedo e Neruda nella lirica intitolata «Yo
no sé nada», allorché il poeta
cileno scrive: «No
hay nada que saber, se sabe
todo»
202.
Nel prologo al lettore del Sueño «El mundo por de
dentro» Quevedo affermava che non si sa
nulla203.
È evidente che lo scrittore spagnolo allude alla
fondamentale impossibilità per l'uomo di pervenire alla vera
conoscenza; Neruda manifesta invece, in un certo senso, l'orgoglio
dell'uomo il quale fonda la propria vita sulla scienza;
benché egli torni alla fine ad affermare l'incertezza di
ogni creduta certezza, sfociando così in un nuovo diretto
contatto col poeta spagnolo.
Tra i libri nerudiani del periodo che stiamo esaminando —59→ Fin de mundo204 è il più vicino per accento alla drammaticità di Quevedo nella concezione del mondo. L'inferno di Quevedo rinasce concretamente nella denuncia nerudiana dell'infelicità del nostro secolo, dilaniato da guerre e da distruzioni. Si veda la lirica «La ceniza»:
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L'onnipresenza
della morte, l'infinita infelicità dell'uomo, la sua
fragilità estrema di fronte alla violenza e alla
distruzione, ripropongono senza áncore possibili il mondo di
Quevedo, soprattutto quello espresso nei Sueños. L'insistenza con cui
Neruda allude alla cenere accentua il clima d'oltretomba, che
sempre rimanda allo scrittore spagnolo, ma nel quale Neruda afferma
pienamente la propria originalità, sia per la forza
drammatica delle immagini, che per la sofferta partecipazione al
travaglio del nostro tempo. Lo stesso si potrebbe dire per la
visione agonizzante del secolo, espressa ne «El
siglo muere»206,
dove la successione degli anni -trentadue- che ancora mancano al
compimento del periodo alluso è vista dal poeta in una
prospettiva oscura; sono anni «podridos» e stanno fermi
in mezzo al tempo «como
los huesos de una res»
.
Il nome di Quevedo
compare direttamente nel poema dedicato all'evocazione di Oliverio
Girondo; Neruda riafferma la propria predestinazione alla parentela
col poeta spagnolo del Seicento, la cui permanenza nel tempo viene
ribadita con convinzione:
Porque yo, pariente futuro | |||
de la itálica piedra clara | |||
o de Quevedo permanente | |||
o del nacional Aragón...207. |
—60→ È un'ulteriore conferma del posto che Quevedo occupa nella spiritualità nerudiana. Per Neruda egli è soprattutto il grande cantore della morte e per questo in particolare ne sente la suggestione, poiché la morte si fa largo continuamente con la sua presenza nei versi del poeta cileno, accentuata da un senso angoscioso di solitudine, che per Quevedo, al contrario, era motivo di rallegramento in compagnia dei suoi libri208. Il quevedesco «memento mori» si manifesta in Neruda ne
«la advertencia / de una invariable calavera»209, de «La soledad», nell'apocalittica prospettiva dell'uomo divorato da «mandíbulas maquinarias», che domina «Muerte de un periodista»:
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Se ne La espada encendida211 Neruda svolge, in un'originale versione delle origini umane, l'inno al trionfo della vita, pur considerando anche la morte, è solo nel libro successivo, Las piedras del cielo212, dove ritroviamo nuovamente orme di Quevedo, meglio accenti che riconducono a lui. Nella celebrazione delle pietre, cioè dei cristalli che stanno sotto terra, Neruda ribadisce, con l'immagine eraclitea del fiume, l'irreversibilità del tempo e la sua messe funebre:
—61→
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E di nuovo torna a contemplare con patetica tenerezza la caduta nel «podridero», l'«envoltura frágil» dell'uomo, la sua irrimediabile debolezza:
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Per contrasto, a
questa condizione peritura il poeta vede opporsi
l'inintaccabilità delle pietre: «La piedra limpia ignora
/ el pasajero paso del gusano»
215.
Il concetto distruttore del tempo, l'allusione alla consumazione
dell'uomo, la menzione del «gusano» riconducono al
più serio e lugubre Quevedo. Il problema della vita e della
morte, della transitorietà dell'essere creato ripropone
nella poesia di Neruda quello fondamentale che ne tormenta tutta
l'esistenza. Ma la morte non sempre è oggetto
d'inquietudine; nella composizione XXX de Las piedras del cielo il poeta sembra
anelare la morte in un tentativo di permanenza sopra il tempo, come
le pietre preziose: «Allá voy, allá voy, piedras,
esperen!»
216.
Nell'affermazione del destino umano nelle pietre Neruda supera il senso negativo del nulla e della decomposizione, del verminaio quevedesco:
|
—62→
Non si dimentichi
che Quevedo nel «Sermón estoico de
censura moral» aveva affermato che l'uomo era
discendente dalle pietre: «El hombre de las piedras descendiente /
(¡dura generación, duro
linaje!)»
218;
a indicare la rozzezza delle sue origini, la semplicità,
alla quale poi aveva voluto sfuggire. Neruda sembra ricollegarsi al
concetto quevedesco nel desiderio finale di trasformarsi in pietra,
certo con diverso significato, quello di sopravvivere alla
distruzione. Il «piedra
seremos»219
sostituisce inaspettatamente nella sua poesia il «polvo seremos» tante volte
ripetuto.
In Geografía infructuosa, raccolta che appare nel 1972220, il tempo è visto di nuovo nella sua imperturbabilità, che significa indifferenza di fronte al destino dell'uomo, anzi congiura verso la sua distruzione:
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Il senso della
labilità dell'uomo torna a imporsi nel poema
«Pero tal vez»,
allorché sull'insicuro cambiamento delle cose l'essere
finisce: «se ha ido uno
también, con nombre y
huesos»
222.
Perciò ogni giorno di vita è un nuovo miracolo, anche
se si accentuano gli interrogativi, anche se tutto dell'uomo, anche
le parole, diviene «polvo
perecedero»223.
Il concetto quevedesco della polvere è divenuto pienamente
nerudiano, s'intende in una nota di estrema tragedia. La
constatazione della brevità della vita -«y entre ir y volver se
va la vida»
224-,
del ripetersi della morte in —63→
ogni sera225,
si accompagna a un senso cupo e rassegnato dell'indifferenziazione
dell'uomo nella morte: «La
muerte cae /sobre la
identidad...»
226.
Che è sempre, per Neruda, come per Quevedo, per quanto
attesa, un assalto improvviso:
|
Quanto profonda sia per Neruda la lezione di Quevedo è dimostrato; neppure nell'ultimo libro pubblicato in vita, Incitación al nixonicidio y alabanza de la Revolución chilena228, la presenza di Quevedo si attenua, nonostante l'impetuosità del verso, l'impegno politico, nel quale si insinuano, però, diversi momenti lirici e autobiografici, quelli che da sempre caratterizzano la poesia nerudiana. Nella XV composizione, infatti, lo scrittore spagnolo è menzionato in un'identificazione ribadita di Neruda con lui e nella lezione che per il poeta cileno ha sempre rappresentato:
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La preoccupazione di Neruda per le sorti del suo paese riscatta di Quevedo, in questo momento, la partecipazione politica alla vita spagnola del suo tempo, così come il poeta —64→ cileno partecipa di un momento storico del suo paese sotto il governo di Allende.
Neruda non disconosce la diversità del suo destino, di uomo che combatte per il riscatto della povera gente. E tuttavia, nel crepuscolo della vita, tra gli assalti del male e la coscienza già chiara, forse, della morte, il poeta sente ancor più vicino al proprio spirito il Quevedo cantore dell'amore e della morte. Come il mare, Quevedo vive in Neruda in tutta la lezione che gli è andato offrendo durante il corso della vita. Lo dimostra la composizione XXX, che intitola «Mar y amor de Quevedo»; in essa l'accento meditativo nerudiano acquista, se possibile, una nota ancor più profonda:
|
Occorre
sottolineare in questi versi l'interpretazione della poesia di
Quevedo quale «espuma» di tutta la
poesia; e i riferimenti, nell'«amor
maldito» alla tirannia dell'amore cantata dal
poeta spagnolo in tanti sonetti, in particolare nel
«Soneto amoroso definiendo el
Amor», che inizia col verso —65→
«Es hielo
abrasador, es fuego helado»
231,
e nel non meno noto «A fugitivas sombras doy
abrazos»232,
pur avendolo definito «anima del
mondo»233.
Che la poesia di Quevedo divenga, per confessione esplicita del
poeta cileno, il «verso
favorito» ha un significato particolare alla
luce degli ultimi avvenimenti riguardanti la vita di Neruda; essa
rimane, infatti, l'ultimo rifugio di fronte al male e al crollo di
tante illusioni.
Non molte novità, per quanto riguarda il tema di cui mi sto occupando, sembra presentare l'opera di Jorge Luis Borges successiva al periodo già esaminato; tuttavia alcuni punti meritano ancora di essere rilevati. Le raccolte dal titolo El otro, el mismo, del 1969234, comprendente poesie del periodo 1930-1967, Elogio de la sombra, edito nel medesimo anno235, recante composizioni poetiche e prose degli anni 1967-1969, come El oro de los tigres, del 1972236, non offrono sostanzialmente elementi nuovi per quanto concerne il nostro tema. Gran parte delle poesie de El otro, el mismo era già presente, del resto, nel volume Obra poética edito nel 1964 da me utilizzato237. Tra i nuovi —66→ poemi de El otro, el mismo tornano, accenti consueti, l'immagine del fiume, che simbolizza il trascorrere inarrestabile della vita238, l'allusione al tempo, cui in «París, 1856» pensa Heine, e che ricompare anche nel «Soneto al vino» ne «el río del tiempo»239; il tema della morte, con l'implicazione diretta della vicenda personale del poeta, si fa largo in «Los enigmas», dove la prospettiva di Quevedo viene rovesciata nell'interrogativo su ciò che attende oltre la fine:
|
La brevità
del tempo è dichiarata in «El
instante»241,
dove l'immagine dell'orologio diviene «la
rutina» di «sucesión y
engaño»; sulla vanità dell'anno,
di fronte alla cieca prospettiva dell'aldilà, si afferma il
valore dell'oggi: «El
hoy fugaz es tenue y es eterno».
Ma nei due
poemi raccolti al segno dell'anno «1964», la morte
diviene un bene quasi magico, una «Oscura
maravilla» che «nos acecha: / La muerte,
ese otro mar, esa otra flecha / Que nos libra del sol y de la luna
/ Y del amor...»
242.
Come si vede, Quevedo qui è presente per contrasto: contro
l'amore che sopravvive alla morte -si ricordi il sonetto
«Amor constante más allá de la
muerte»243
più volte citato- Borges pone quest'ultima come distruttrice
non solo della vita ma anche dell'amore. Il contatto con Quevedo
sembra manifestarsi in più note nella lirica
«A quien está
leyéndome»244,
dove confluiscono i concetti della transitorietà e
—67→
dell'irreversibilità del tempo, simbolizzati
nuovamente nel fiume in cui Eraclito vide il simbolo della sua
stessa fugacità, nell'allusione al marmo, ossia alla tomba
che attende l'uomo, nell'iscrizione che questi «no leerá». L'uomo,
è per Borges «sueño del
tiempo»; la sua condizione è d'ombra; la
morte è l'agguato fatale che lo attende al termine della
giornata terrena, così che fin da vivo egli deve pensare di
esser morto: «Piensa que de
algún modo ya estás
muerto»
245.
Nel primo dei «Poemas
metafísicos» Quevedo aveva scritto:
|
Oltre ai concetti,
il modo di Borges di rivolgersi, in «A
quien está leyéndome»,
sentenziosamente al lettore avvicina al maestro; come avvicina a
Quevedo in «El
alquimista» la considerazione finale che Dio,
«que sabe de
alquimia»
, converte l'uomo «En polvo, en nadie, en
nada y en olvido»
247.
Modificazione originale, questa del verso citato, di ciò che
Góngora scrisse nel sonetto «Mientras por
competir con tu cabello»248,
in cui considera la riduzione della bellezza femminile «en tierra, en humo, en
polvo, en sombra, en nada»
.
Anche in
Elogio de la
sombra Borges torna all'immagine consueta del fiume e a
«Heráclito» dedica
una composizione nella quale si vede personalmente identificato col
fiume che tutto trascina, affermando la coscienza del proprio
limite e al tempo stesso di qualcosa di misterioso e indecifrabile:
«De una materia
deleznable fui hecho, de misterioso
tiempo»
249.
—68→
Ma esiste una coincidenza evidente con quanto Quevedo ha
più volte affermato, nella poesia, e nella prosa dei
Sueños,
che cioè la fonte della morte sta nell'uomo; Borges
manifesta questo concetto nei versi finali del poema citato:
Acaso el manantial está en mí. | |||
Acaso de mi sombra | |||
surgen, fatales e ilusorios, los días. |
Il che riconduce anche al verso di un poema amoroso del lirico spagnolo:
«en esta muerte que llamamos vida»250.
Nella lirica
«El laberinto251
Borges insiste nuovamente sul concetto dell'«usura de los
días»
, sulla «pallida polvere»
nella quale ha
decifrato, «rastros que
temo»,
i segni della morte, mentre ricerca
angosciosamente l'«Otro». In un'altra poesia
dedicata alle cose252
domina il clima di rimpianto per ciò che rimarrà sul
naufragio umano, sulla nostra scomparsa, già evidente ne
«La noche que en el sur lo
velaron», di Cuaderno San Martín253.
Ne «Las
cosas» il poeta argentino sottolinea la nostra
limitazione, più volte denunciata da Quevedo; ma Borges lo
fa in una nuova dimensione, denunciando l'indifferenza delle cose,
la loro incapacità di prendere coscienza, nella loro
perdurabilità, della nostra scomparsa: «Durarán
más allá de nuestro olvido; / No sabrán nunca
que nos hemos ido»
254.
In
«Rubaiyat» il senso
inquietante della polvere e del limite umano, così
profondamente espressi da Quevedo, tornano a imperare. La
definizione della carne come polvere, la rinnovata allusione al
fiume come «huidiza
imagen»
—69→
della vita «Que lentamente se nos va de
prisa»255,
la stigmatizzazione della vanità delle costruzioni umane,
l'implicazione di un essere misterioso che perdura, per il quale
«un siglo es un
momento»
256,
tutto confluisce nell'affermazione di un'identità con la
morte: «Eres los otros /
Cuyo rostro es el polvo. Eres los
muertos»
257.
Ciò riconduce ancora una volta a Quevedo, al
«Sueño de la
muerte».
Ne El oro de los tigres i temi della poesia borgiana si ripetono. Il poeta stesso, nelle parole preliminari alla raccolta, se ne scusa, apparentemente:
«De un hombre que ha cumplido los setenta años que nos aconseja David poco podemos esperar, salvo el manejo consabido de unas destrezas, una que otra ligera variación y hartas repeticiones. Para eludir o siquiera para atenuar esa monotonía, opté por aceptar, con tal vez temeraria hospitalidad, los misceláneos temas que se ofrecieron a mi rutina de escribir»258. |
È un modo, in realtà, per affermare il valore insostituibile delle ripetizioni alluse, temi che costituiscono la sostanza della spiritualità borgiana.
Nella raccolta
citata si manifesta qualche altro contatto con Quevedo, a parte la
lirica dedicata «Al idioma
alemán», nella quale esplicitamente
Borges menziona il poeta spagnolo, affermando che suo destino fu
«la lengua castellana», «El
bronce de Francisco de Quevedo»259.
Nel poema dedicato alle «Cosas» Jorge Luis Borges
ribadisce la limitatezza dell'uomo, l'usura delle cose, alludendo
al «lento polvo
silencioso»
che di continuo versano i
giorni e le notti260.
Il concetto ritorna anche nella lirica «Al
primer poeta de Hungría»,
allorché lo scrittore argentino allude al volto di lui ormai
putridume e polvere: «Tu
rostro, —70→
que hoy es pudrición y
polvo»
261.
Non è il caso di rincorrere versi, passi circostanziati di
Quevedo: basti sottolineare un'adesione divenuta ormai voce
caratterizzante di un Borges che in Quevedo ha trovato lo scrittore
più vicino, forse, alla propria sensibilità, ai
propri problemi d'indole metafisica. Così come lo hanno
trovato i poeti precedentemente trattati.