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ArribaAbajoII. Quevedo nell'ultima poesia di Jorge Carrera Andrade, Octavio Paz, Pablo Neruda e Jorge Luis Borges

Le considerazioni e i rilievi che sono andato facendo intorno alla presenza di Quevedo nella poesia ispano-americana del secolo XX, raccolti nello studio che ha per titolo Quevedo nella poesia ispano-americana del '900, apparso nel 1967, se non richiedono ulteriori precisazioni per quanto riguarda César Vallejo, la totalità della cui opera era già stato dato di esaminare, hanno bisogno di un nuovo discorso per ciò che concerne gli altri poeti. Infatti sia Carrera Andrade che Octavio Paz, sia Neruda che Borges hanno continuato la loro attività poetica e in essa la presenza dello scrittore spagnolo del Seicento non è scomparsa, anzi in taluni casi vi è accentuata. La mia attenzione in queste pagine si volge, perciò, senza intenzione di tornare sul già detto, a quanto i poeti menzionati sono andati pubblicando in epoca successiva all'apparizione del mio studio.


ArribaAbajo1. Jorge Carrera Andrade

Carrera Andrade pubblica nel 1968 una raccolta poetica dal titolo significativo, Poesía última102: vi compaiono alcuni quaderni di poesia apparsi anteriormente, da Hombre planetario a El alba llama a la puerta. Non si tratta, perciò, di una novità assoluta, ma il libro costituisce un punto di partenza per la riconsiderazione di una poesia che ora presenta   —40→   in modo più omogeneo una stagione «ultima», ma non finale, della creazione del poeta equatoriano.

In taluni gruppi di liriche del volume citato il clima sembra più che mai propizio all'accentuazione della nota quevedesca. Così, dopo l'inno d'universale fratellanza di Hombre planetario e lo sfolgorio cromatico di Floresta de los Guacamayos, Crónica de las Indias (1965) riesumando il tragico momento della guerra civile nel Perù vicereale, ai tempi di Gonzalo Pizarro e di La Gasea, accentua toni cupi le cui origini abbiamo già individuato in Carrera Andrade nell'adesione a Quevedo. Il poeta condanna il ribelle Gonzalo, mentre celebra nel rappresentante regio -il sacerdote La Gasea che con abile politica riuscì a isolare il Pizarro e a vincerlo- «el emisario de la vida eterna»; Gonzalo Pizarro, al contrario, è un «rey sin reino», un capitano senza soldati, possessore di un unico tesoro, il sepolcro: «aliado sin ventura de la muerte, / potentado del único tesoro: su sepulcro»103.

Il clima quevedesco è chiaramente richiamato dai versi citati, il primo dei quali si presenta come variazione di un precedente verso di Carrera Andrade, presente in «Tres estrofas al polvo», di Lugar de origen, là dove la polvere era definita «aliado innumerable de la muerte», nel senso della sua azione corrosiva sugli esseri e sulle cose. Nel verso citato di Crónica de las Indias il significato, evidentemente, non è lo stesso: Gonzalo Pizarro è, qui, solo uno sfortunato e involontario alleato della morte; ma il punto di partenza appare identico, in quanto il ribelle finisce per assumere la stessa funzione distruttrice della polvere, riconducendo chiaramente al Quevedo de «El escarmiento»104, come al poeta spagnolo riconduce, sia pure non per contatti concreti, l'ultimo verso in cui il sepolcro è indicato quale unico bene dell'uomo. Si ricordi il più volte citato sonetto «Signifícase la propia brevedad de la vida, sin pensar y con padecer, salteada de la muerte», e la terzina finale:

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Azadas son las horas y el momento,
que, a jornal de mi pena y mi cuidado,
cavan en mi vivir mi monumento105.



I contatti con Quevedo infittiscono ne El alba llama a la puerta (1966). In «Jornada existencial», appartenente al gruppo di liriche «El reino efímero», la perdurabilità umana è vana ricerca e acquista i contorni immateriali della Florida mitica e dell'Eldorado irraggiungibile. Il regno «inencontrable», il regno «suspirado» sottolinea nei suoi contorni immateriali il tragico destino dell'uomo e dei suoi limiti106. L'immagine quevedesca, già sottolineata in Canción de gesta di Pablo Neruda, del trascorrere del tempo come aratura della vita umana, si presenta anche qui, in forma originale, ma con identico significato: «El arado del sol ara mi frente / en labranza de días y de años sucesivos»107. Si tratta sempre della «agricultura de la muerte» espressione di Quevedo nella «Carta CLXIX» diretta a Lucilio:

«Cualquier tierra, oh Lucilio, es nuestra madre: ¿cuál regazo nos hará más cariñosa acogida? Ella nos cobra, pues nos debemos a ella. No defraudemos la agricultura de la muerte: semilla es nuestro cuerpo para la cosecha del postrero día; mejor cuenta da de la siembra la tierra que las piedras; más descubren nuestra vanidad las columnas y pirámides que cubren nuestros güesos: acábese con la vida la locura, que aun fuera bien no hubiera empezado en ella [...]»108.



La coscienza del proprio finire progressivo conduce Carrera Andrade alla scoperta del luogo ove risiede veramente l'Eldorado: «El país de Eldorado está en nosotros mismos»109. L'uomo è un «rey desnudo» e il poeta lo   —42→   scopritore della regione ultima che si libra tra i confini del vento e della notte:


Soy el descubridor de la región postrera,
conquistador del reino efímero sin nombre
en las fronteras últimas
del viento y de la noche110.



La morte, quindi, per Carrera Andrade come per Quevedo, è meta ultima dell'uomo. Il processo di smaterializzazione delle cose, la rivelazione di una vanità essenziale del tutto si fa più radicale ne «El reino de las cosas»; l'immagine della morte si manifesta nelle forme che si disfano: «todo se deshace»111. La rugiada spira salendo al cielo; la rosa «es un ocaso reducido»112. Il senso del trascorrere micidiale del tempo torna a manifestarsi, in un'immagine che richiama il fiume di Eraclito, così caro a Quevedo: «Las aguas de los años cubren todas las cosas». Ampliamento del Salmo XVII dell'Heráclito cristiano, la cui prima affermazione è precisamente il potere distruttore del tempo: «Todo tras sí lo lleva el año breve / de la vida mortal [...]»113. Ma nella medesima lirica c'è anche un altro richiamo concreto alla transitorietà delle costruzioni umane, di lunga tradizione ispanica, ma più volte divenuto tema di Quevedo; scrive Carrera Andrade:


Mirad: aquí hubo un día una ciudad
habitada por hombre.
Ahora sólo el aire embalsamado
divulga las noticias
de las antiguas tumbas, hoy jardines114.



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Il ricordo della «Canción» di Rodrigo Caro alle rovine di Itàlica è certo presente nel poeta equatoriano, ma soprattutto lo è la considerazione della rovina delle cose quale appare dal Salmo XVII dell'Heráclito cristiano di Quevedo115. Forse ancor più vicino è però l'eco del Salmo XII in cui il poeta spagnolo passando in rassegna le grandezze defunte di Cartagine, di Gerusalemme, di Roma -della quale «apenas se defiende la memoria / de las escuras manos del olvido»- e di Sagunto, esprime, a proposito della sorte di quest'ultima città, un concetto simile a quello di Carrera Andrade:


Adonde fue Sagunto es campo seco:
contenta está con yerba aquella tierra,
que al cielo amenazó con ira y guerra116.



Ancora un punto di contatto tra il passo citato del poeta di cui mi sto occupando e la poesia di Quevedo si potrebbe rilevare nella silva «Roma antigua y moderna» dei poemi morali, soprattutto nel verso 84, in cui si sottolinea il ritorno della città alla condizione primitiva, anteriore alla sua grandezza: «vuelven a ser ribera las riberas»117.

Nella lirica «No hay», del secondo gruppo di poesie della stessa raccolta, riunite sotto il titolo «Estación penúltima», l'immagine di morte si identifica con quella di un deserto totale che circonda l'uomo. Le cose, nemmeno i libri, non hanno più senso per Carrera Andrade, di fronte all'avanzare della morte, e una disperazione non certo quevedesca rimanda concretamente al suono di morte che Quevedo sente nel cuore e che egli manifesta nel sonetto in cui «Conoce la diligencia con que se acerca la muerte...»118; il suono «formidable y espantoso» che a Quevedo   —44→   annuncia l'avvicinarsi dell'ultimo giorno, è sentito dal poeta ecuatoriano come ossessivo tamburo che non ammette scampo:


Hay un tambor en cada oído.
[...]
Nada nos libra del desierto.
Del tambor nada nos salva119.



Ho accennato sopra, per la stessa lirica, al tema del libro, oggetto al quale Carrera Andrade non dà più alcun significato positivo:


En las librerías no hay libros,
en los libros no hay palabras,
en las palabras no hay esencia:
hay sólo cascaras120.



E ancora, nella conclusione del poema:


Libros pintados se deshojan,
leves cascaras de la Nada121.



Il tema riconduce, per contrasto, ancora una volta a Quevedo, al noto sonetto «Desde la torre»122, in cui afferma il valore imperituro, la vita perenne delle opere scritte, lasciate dai saggi che più non esistono. Il pessimismo di Carrera Andrade in questo suo momento esistenziale coinvolge invece tutte le cose.

Nel terzo gruppo di liriche raccolte sotto il titolo «Memorias de nuestro planeta» l'Asia torna a dare al poeta equatoriano una lezione fondamentale di morte, di limite assoluto dell'uomo nella sua fragilità. Soprattutto ne «El   —45→   caballo de terracota»123, sotterrato per secoli «con su ajuar funerario», si concreta della Cina un'immagine di morte che nella sua inquietante sostanza riconduce alla polvere di Quevedo; la strada della seta biancheggiante di «huesos humanos»124 -non vale la pena qui di richiamare materialmente i molti passi in cui Quevedo allude alle ossa125- e l'allusione al tramonto delle potenze terrene in ciò che resta di Kublaikán concretano il richiamo quevedesco:


Este montón de polvo fue Kublaikán.
Las nubes imitan vanamente sus cabalgatas126.



Ciò si verifica anche per quanto riguarda la distruzione dei simboli delle grandezze defunte: «Las estatuas doradas / cayeron en el polvo para siempre»127. La polvere cui è ridotto Kublaikán riconduce al verso di Quevedo dove, ne «El escarmiento», definisce l'uomo «polvo soberbio y presumido, / ambiciosa ceniza, supultura / portátil...»128; mentre per il tramonto delle potenze umane, in particolare per la distruzione dei segni funebri che vanamente pretendono di prolungare nel tempo la falsa grandezza del defunto, un contatto sembra possibile con il sonetto del poeta spagnolo che «Contiene una elegante enseñanza de que todo lo criado tiene su muerte de la enfermedad del tiempo»129, là dove afferma che «también para el sepulcro hay muerte»130. Né può sembrare illegittimo un avvicinamento, per i versi citati, al Salmo XI dell'Heráclito cristiano, dove Quevedo afferma di non invidiare «la púrpura ni el oro, / que en mortajas convierte / la trágica guadaña de la muerte»131.   —46→   Con legittima pertinenza possono essete ricordati, a questo proposito, anche taluni versi della silva «A los huesos de un rey que se hallaron en un sepulcro, ignorándose»; Quevedo vi stigmatizza la vanità del ricordo umano nelle iscrizioni e nei monumenti, ed esclama:


¡Cuántos que en este mundo dieron leyes,
perdidos de sus altos monumentos,
entre surcos arados de los bueyes
se ven, y aquellas púrpuras que fueron!
Mirad aquí el terror a quien sirvieron;
respetó el mundo necio
lo que cubre la tierra con desprecio132.



«Sombra en el muro», lirica appartenente al quarto gruppo riunito sotto il titolo «El alba llama a la puerta» -che si estende a tutta la raccolta-, offre di nuovo motivi quevedeschi nella considerazione della presunzione del poeta di comprendere nella propria testa tutto il mondo, mentre «ciudades, países, animales y flores / ardieron consumidos en cenizas / por la llama del tiempo»133. Non v'è dubbio che, nonostante l'originalità della concezione, Quevedo è presente nel poeta equatoriano, sia genericamente, come cantore della distruzione ignea e della riduzione delle cose a cenere, sia più particolarmente in passi chiaramente identificabili, come l'immagine delle torri di Roma incendiate da Nerone e ridotte a cenere, cantate nella silva «A Roma antigua y moderna»: «abrasadas del fuego, sobre el río, / torres llovió en cenizas viento frío»134. La «llama del tiempo» corona, nella poesia di Carrera Andrade originalmente il tema quevedesco. La lirica conclude con un finale di piena autonomia nell'affermazione di un valore della vita umana in sé, pur nella sua labilità, rappresentato dalla serie di frutti che potrebbe -o avrebbe potuto - dare.

Nel 1970 Jorge Carrera Andrade pubblica il Libro del   —47→   destierro135, espressione di un momento acuto di sofferenza nell'intermittente ripetersi, nella sua esperienza, di una condizione dilaniante, l'esilio. Torna in molti passi del poema il senso acuto del «desgaste» delle cose, e in esse, della vita del poeta; i colori e le forme terrestri gli si presentano «gastados por la arena de los años»136. Le immagini, i vocaboli, riconducono ancora a Quevedo; così, il considerare in sé il progredire della morte: «Cada día me alejo de mí mismo»137; che se per un lato richiama il quevedesco «se huye la vida paso a paso» de «El escarmiento»138, meglio si avvicina all'espressione dello stesso poema: «vivo como hombre que viviendo muero»139. Ma il poema IX del Libro del destierro è tutto un richiamo a Quevedo e, per quanto riguarda la poesia precedente di Carrera Andrade, al poema «La alquimia vital». Contemplando se stesso, in un singolare sdoppiamento, egli vede l'uomo che vive materialmente, il poeta, e quello che dentro di lui attende silenzioso di intraprendere, in sua compagnia, il viaggio finale:


Desde el fondo de mí un hombre mudo
me contempla vivir. Tiene mi rostro.
Ha perdido los árboles y pájaros
de su reino terrestre.
Ha perdido el caudal de las palabras.
Sólo espera mi signo para el viaje
que emprenderemos como un hombre solo140.



Il punto di riferimento di questo poema nella poesia di Quevedo può essere il sonetto in cui «Signifícase la propia brevedad de la vida, sin pensar y con padecr salteada   —48→   de la muerte»141, nella terzina finale, ma anche «El escarmiento», nel verso «vivo me soy sepulcro de mí mismo»142 e, della stessa composizione, il passo compreso tra i versi 97 e 112, in cui il poeta spagnolo afferma di essere in attesa che la morte «prevenida» sciolga dalle sue vene l'anima, «que anudada está en la vida». Carrera Andrade non menziona direttamente l'anima, ma l'«altro» Carrera Andrade, in attesa di quello esteriormente gesticolante, è l'anima.

Nel poema XII del Libro del destierro il concetto del trascorrere del tempo, del passare dell'uomo, figlio di un tempo immobile che lo matura per la morte, è un ulteriore richiamo a Quevedo. L'originalità del poeta equatoriano si afferma al disopra dei richiami, generici o concreti, che rimandano al canto della brevità della vita143, al già citato passo de «El escarmiento» -«últimamente el tiempo ha de heredarte»144-, alla funzione distruttrice del tempo: «Todo tras sí lo lleva el año breve / de la vida mortal...»145. In contrasto con il concetto quevedesco della corsa del tempo - «Bien te veo correr, tiempo ligero»146- Jorge Carrera Andrade ne afferma l'immobilità sul trascorrere umano, come già Neruda, ma non la sua indifferenza, bensì l'intervento «artero» nel maturare l'uomo per «la muerte agricultora», nuovo e circostanziato richiamo, questo, alla «agricultura de la muerte» della Carta CLXIX di Quevedo già citata. Scrive infatti il poeta:

El tiempo no transcurre, nosotros transcurrimos
al igual que las cosas
porque la vida es sólo una mortal dolencia.
El tiempo inmóvil mira nacer, crecer, morir
y permanece entero sin gastarse, infinito.
  —49→   Somos hijos del tiempo que nos forma
el tiempo nos madura
para que coja el fruto la muerte agricultora
147.



L'eco dei passi della morte risuona ancora una volta, come per Quevedo, nel cuore del poeta: «En el polvo se marcan las huellas de la muerte / sobre mi corazón suenan sus pasos»148. Il richiamo all'ora «negra y fría», colma di timori e d'ombre, che il poeta spagnolo manifesta nel sonetto in cui «Conoce la diligencia con que se acerca la muerte...»149, è evidente, anche se Quevedo interpreta positivamente l'avvento della morte, come liberazione-vita, mentre Carrera Andrade ne denuncia il senso drammatico di fine.

Nel 1972 Jorge Carrera Andrade dà alla stampa i Misterios naturales150; vi compaiono anche il Libro del destierro, le Estaciones de Stony Brook -che non offrono spunti per il nostro argomento-, Quipos, El combate poético e Paraíso de los ancianos. Precede questi poemi, o gruppi di poesie, una lirica per noi interessante, «Nombro la piedra»; in essa ritorna il tema dell'orologio divoratore del tempo: «El reloj roe el pan infinito del tiempo»151. Quevedo definí le ore «sepultureras»152, parlò dell'«hora irrevocabile»153 e nel «Reloj de sol» affermò che l'orologio «los pasos de la luz le cuenta al día»154. Il concetto è il medesimo, svolto, tuttavia, dal poeta equatoriano in una dimensione di più ampia poesia. Nella sua finitezza ogni cosa conclude con l'affermazione della nullità dell'uomo. Nel   —50→   terzo «Quipos» Carrera Andrade riscopre, su questa desolata conclusione, la natura materna della morte, come già Octavio Paz, e come prima ancora lo stesso Quevedo, che la vedeva preparare il suo bene155, convinto che essa fosse ritorno alla vera vita156. Scrive il poeta equatoriano:


Somos nadie
hasta que nos da a luz
la muerte-madre157.



Ne «el escarmiento» Quevedo aveva affermato: «muriendo naces y viviendo mueres»158.

L'onnipresenza quevedesca della morte riecheggia anche nel IV «Quipos», richiamando in sintesi tutta la poesia precedente di Carrera Andrade, da «El gallo de la veleta» della cattedrale dell'infanzia, al mondo verde che compendia simbolicamente la spiritualità della patria:



Oh gallo de mi infancia
       canta ahora:
La muerte está escondida
       bajo las rosas.

Bajo los astros
la Inmensa duerme
guardiana del secreto
       del mundo verde159.



Nel poema Paraíso de los ancianos ricompare il concetto del tempo distruttore: «En cada reloj / un minero invisible cava una sepultura»160. Sono gli accenti più cupi di   —51→   Quevedo. Il contatto di Jorge Carrera Andrade con il grande cantore ispanico del nostro limite non poteva mantenersi più profondo, sempre, s'intende, su un piano creativo di estrema originalità.




ArribaAbajo2. Octavio Paz

Anche per Octavio Paz Quevedo rimane presenza intimamente operante. Un esame della poesia che egli riunisce nel 1969 in Ladera Este161 lo attesta. Nel libro compare una messe poetica che va dal 1962 al 1968, riunita sotto i titoli Ladera Este (1962-1968), Hacia el comienzo (1964-1966) e Blanco, poema complesso, quest'ultimo, concluso a Nuova Delhi nel 1966 e già edito a Città del Messico nel 1967162.

Di alcune liriche comprese nel libro cui mi riferisco già ho trattato, in altre pagine dedicate al Paz, come di testi allora inediti che il poeta mi aveva favorito. È il caso di «Balcón», di Ladera Este. Disagevole è ora seguire una cronologia interna, ma è comunque evidente che l'apparente soluzione positiva al problema della vita e della morte, manifestata dal poeta messicano in Viento entero163, quale risultato ultimo dell'esperienza indiana, torna in discussione. Le inquietudini metafisiche presenti in «Balcón» si rifanno vive e a questa luce più che l'aspetto tranquillizzante della morte, da me segnalato precedentemente, si impone alla nostra attenzione un susseguirsi di note inquietanti che pongono continuamente in primo piano col dramma del poeta quello dell'uomo. In «Balcón», è vero, la vita «verdadera» assume l'aspetto della morte:


Tenía la cara de la muerte
Era el mismo rostro
   Disuelto
En el mismo mar centelleante164.



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Si noti che nella versione definitiva è scomparso l'aggettivo «adorable», applicato nella prima versione al «rostro» della morte; nella lirica il clima si modifica e quevedescamente prende il sopravvento la città in un valore simbolico che ripropone il dramma dell'uomo, solo in un mondo che da ogni parte gli presenta il suo limite, inquietantemente sospeso com'è nell'immobilità che lo circonda, come appunto è il caso di Nuova Delhi, «Dos sílabas altas / Rodeadas de arena e insomnio»165.

Il concetto del limite, il simbolo della sabbia, il tempo che regge l'uomo tra le sue mani vuote166, la polvere, «Polvo iracundo que despierta167, esercitano sul lettore un nuovo e prepotente richiamo a Quevedo. A questa luce anche la reminiscenza di Góngora, il primo verso delle Soledades, «Pasos de un peregrino son errante», acquista il significato di una denuncia della limitatezza umana, dell'insignificanza dell'uomo; e mentre il tempo esperimenta un'ansia «de encarnación»168 la fragilità di cui l'essere è conscio lo conduce a percorrere la propria fine, in un'attesa indefinita, oltre se stesso: «Más allá de mí mismo / En algún lado aguardo mi llegada»169.

Accenti che conducono all'ispanico cantore del tempo e della morte compaiono anche in altri poemi. Nella lirica dedicata a Amir Khusrú -poeta e musico, fondatore della poesia in lingua urdu-, «Tumba de Amir Khusrú», vi è una definizione del poema che richiama espressioni di Quevedo riferite all'uomo: «Todo poema es tiempo y arde»170. Impressioni vaghe, non documentabili materialmente, ma il senso di finitezza e di vita, al contempo, avvicina al concetto quevedesco dell'uomo e anche a immagini proprie della poesia nerudiana, come «Entierro en el Este» della   —53→   prima Residencia en la tierra, anche se con sviluppo autonomo.

Il vasto repertorio della poesia funebre di Quevedo, i numerosi «túmulos» barocchi della sua poesia, vengono immediatamente evocati nella sensibilità del lettore dalle numerose contemplazioni delle tombe indiane presenti nella lirica di Octavio Paz. Si vedano a questo proposito i poemi «En los jardines de los Lodi», e «El día en Udaipur». Ma in Paz opera, forse, piuttosto, un gusto genericamente barocco della tomba, dei mausolei bianchi sospesi tra cielo e terra, dai quali, simbolo di valore metafisico, si levano d'improvviso, come anime, voli d'uccelli. Lo si veda nel citato poema dedicato ai mausolei della dinastia Lodi, che regnò tra il 1451 e il 1526, a Nuova Delhi:


En el azul unánime
Los domos de los mausoleos
-Negros, reconcentrados, pensativos-
Emitieron de pronto
    pájaros.171



Non v'è dubbio, l'originalità di Octavio Paz si afferma, in questa lirica, per la novità della rappresentazione, oltre che per il valore di sintesi e l'aspetto formale. I sonetti tombali di Quevedo alludono sempre alla miseria dell'uomo, alla vanità della sua superbia, al livellamento giustiziere che opera la morte sulle grandezze terrene, alla labilità del ricordo di chi fu. Ma il Paz dà alle sue poesie di morte una tensione metafisica diversa, insinua il dubbio drammatico, il sospetto intorno all'esistenza di qualcosa oltre la morte, che non definisce. Nella sospensione meditativa, tuttavia, si fa largo un senso di gelo, lo stesso che scaturisce dai marmi cantati dal poeta spagnolo.

Si potrebbero sottolineare genericamente altri punti di contatto tra la poesia del Paz e quella di Quevedo. In «Aparición», ad esempio, rivive la quevedesca equazione uomo=polvere172; in «Pueblo» compare un tempo simultaneamente   —54→   materiale e inconcreto, la «pietra» come simbolo di impenetrabilità, d'incomunicazione173; la «danza de las horas»174, simbolo della fragilità umana, compare in «Vrindaban»; mentre il quevedesco «muriendo naces y viviendo mueres»175 è presente in versione originale nella lirica «Madrugada al raso»: «La vida que nace cada día / La muerte que nace cada vida»176.

Nel gruppo di liriche riunite sotto il titolo Hacia el comienzo (1964-1968) si notano altre tracce di Quevedo. Nel già citato «Viento entero» l'affermazione di un presente «perpetuo» sottolinea un paesaggio, quello indiano, in cui lo squallore e la desolazione delle origini del mondo riconducono per taluni vocaboli, come «hueso» e «polvo»177, al poeta spagnolo. Nel «Cuento de dos jardines» la condanna dell'uomo si concreta nella lotta col tempo che conduce alla morte:


   Estamos condenados
A matar al tiempo:
   Así morimos178.



Il concetto è fondamentalmente il medesimo espresso più volte da Quevedo nella sua poesia: il tempo distrugge l'uomo, ma il Paz si avvale, qui, di un'immagine nuova e mostra l'uomo intento a una lotta vana contro di esso. La meccanicità dell'esistenza umana, dallo spuntare del giorno al giungere della notte, si manifesta nella «espiral de las horas»179, che in un certo senso richiama gli orologi meccanici quevedeschi e il concetto della perdita irrimediabile dell'uomo negli ingranaggi del tempo.

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Nello stesso poema l'esperienza indiana sembra condurre Octavio Paz a raggiungimenti più profondi nell'ordine metafisico, e se la morte continua a essere per lui qualcosa di affascinante -«O fascinación de la muerte»180- egli pare avvicinarsi, sia pure con concezione diversa d'ordine fideistico, a Quevedo, allorché scrive «Supe que morir es ensancharse, / Negarse es crecer»181. Ma il dubbio metafisico muove il verso del Paz permeandolo di una drammaticità sconosciuta a Quevedo; essa si manifesta nel buio che per il poeta messicano rappresenta la morte: «No sabemos hacia donde vamos»182; «¿Qué nos espera en la otra vida?»183.

In Blanco, attraverso la complessa struttura del poema e la molteplicità dei significati, Quevedo non scompare; egli è presente non solo per la terminologia e per le immagini, per la professione di polvere del poeta -«Polvo soy de aquellos lodos»184-, per l'espressione di una condizione umana prigioniera della morte e del tempo -«Amordazado / Por la conjuración anònima / De los huesos, / Por la ceñuda pena de los siglos / Y los minutos»-185 ma per un verso, «las altas fieras de la piel luciente»186 incorporato nel testo del poema e che lo stesso Paz denuncia in nota appartenere al sonetto del poeta spagnolo «Traigo todas las Indias en la mano»187, ossia, più esattamente, a quello in cui celebra Lisi, «Retrato de Lisi que traía en una sortija»188. Il significato del verso è mutato nella poesia di Octavio Paz: per Quevedo significava, infatti, secondo l'interpretazione di González de Sala, il firmamento -«El firmamento dice, pues que trae también las estrellas»189-   —56→   e, nel chiarimento di Blecua, il segno del Toro190; per il poeta messicano tale verso assume invece il significato di manifestazione vitale dell'amore.

Un curioso contatto con un settore della poesia quevedesca, quello satirico, di cui non esiste traccia nei poeti studiati, è individuabile inaspettatamente nel poema che il Paz dedica a una vecchia, «Epitafio de una vieja», in Ladera Este191. Nella sinteticità dei versi rivive l'arguta vena del grande satirico del Seicento. Scrive il Paz della vecchia:


La enterraron en la tumba familiar
Y en las profundidades tembló el polvo
Del que fue su marido:
   La alegría
De los vivos
    Es la pena de los muertos.



Si tratta di un esempio isolato, ma non per questo meno significativo, che richiama le numerose satire dedicate da Quevedo alle donne e vale ad attestare una più ampia gamma di contatti tra il Paz e il poeta spagnolo, anche se le note più costanti rimandano soprattutto al settore più serio della poesia quevedesca.




ArribaAbajo3. Pablo Neruda

Per ciò che concerne Neruda la sua adesione a Quevedo non si attenua negli ultimi anni. Dal 1967 all'ultimo libro pubblicato prima della sua scomparsa, nel 1973192, il   —57→   poeta cileno è andato approfondendo la nota che lo avvicinava a Quevedo, e la sua risonanza è viva anche nell'ultima stagione nerudiana.

Nel 1967 la pubblicazione de La barcarola193, ultimo volume del Memorial de Isla Negra, presenta di nuovo Neruda cantore del tempo e della morte, oltre che dell'amore. Anzi, egli si sente spinto dall'amore a cantare la morte: «el contacto que induce a mi sangre a cantar en la muerte»194. Amore e morte furono i grandi ispiratori di Quevedo; Neruda gli è vicino in questo, ma anche, nel libro citato, per l'invettiva contro il danaro: sulla miseria del mondo egli denuncia, infatti, la deificazione del «SantoDinero»195. Un ripudio totale accomuna Neruda a Quevedo nell'additare l'abiezione dell'individuo che del danaro ha fatto il proprio dio. Il poeta spagnolo aveva mostrato il potere corruttore del danaro nella famosa «letrilla» inclusa da Pedro de Espinosa in Flores de Poetas ilustres de España, «Poderoso caballero / es don Dinero»196.

Ne La barcarola, tuttavia, il tema della morte e del tempo sembrano imporsi su quello dell'amore. La discesa distruttrice del tempo nell'uomo -nel poeta e nell'amata- richiama soprattutto gli atteggiamenti impietosi che esso assume in tanti passi della poesia di Quevedo: «hasta que la tierra recoge tu cuerpo que ya no florece»197, è un verso nerudiano che supera per significato addirittura il maestro.

Ne Las manos del día198 la presenza di questi accenti è confermata. Neruda vede se stesso testimone di un momento difficile dell'umanità e nei suoi libri osserva manifestarsi la vita di tanti altri uomini, di tante mani che, come scrive in «El olvido»199, continuano a vivere. Nella lirica dal titolo «Es así el destino», l'identità quevedesca   —58→   vita=morte, morte=vita, si afferma nel verso «la vida, es decir la muerte: es decir, la vida»200. La tragedia del Viet-Nam ripropone alla sensibilità nerudiana e nella sua poesia il tema della distruzione e della morte, in accenti genericamente definibili quevedeschi, soprattutto per il ricorrere insistente del vocabolo «huesos». Si veda la lirica «En Viet-Nam»:


Han dejado una charca
de padre, madre e hijo:
busquemos
en ella,
busca tus propios huesos y tu sangre,
búscalos en el barro de Viet-Nam,
búscalos entre otros tantos huesos:
ahora quemados ya no son de nadie,
son de todos,
son nuestros huesos, busca
tu muerte en esa muerte,
porque están acechándote los mismos
y te destinan a ese mismo barro201.



Ancora, per divergenza questa volta, è possibile indicare un contatto tra Quevedo e Neruda nella lirica intitolata «Yo no sé nada», allorché il poeta cileno scrive: «No hay nada que saber, se sabe todo»202. Nel prologo al lettore del Sueño «El mundo por de dentro» Quevedo affermava che non si sa nulla203. È evidente che lo scrittore spagnolo allude alla fondamentale impossibilità per l'uomo di pervenire alla vera conoscenza; Neruda manifesta invece, in un certo senso, l'orgoglio dell'uomo il quale fonda la propria vita sulla scienza; benché egli torni alla fine ad affermare l'incertezza di ogni creduta certezza, sfociando così in un nuovo diretto contatto col poeta spagnolo.

Tra i libri nerudiani del periodo che stiamo esaminando   —59→   Fin de mundo204 è il più vicino per accento alla drammaticità di Quevedo nella concezione del mondo. L'inferno di Quevedo rinasce concretamente nella denuncia nerudiana dell'infelicità del nostro secolo, dilaniato da guerre e da distruzioni. Si veda la lirica «La ceniza»:


Esta es la edad de la ceniza.
Ceniza de niños quemados,
de ensayos fríos del infierno205.



L'onnipresenza della morte, l'infinita infelicità dell'uomo, la sua fragilità estrema di fronte alla violenza e alla distruzione, ripropongono senza áncore possibili il mondo di Quevedo, soprattutto quello espresso nei Sueños. L'insistenza con cui Neruda allude alla cenere accentua il clima d'oltretomba, che sempre rimanda allo scrittore spagnolo, ma nel quale Neruda afferma pienamente la propria originalità, sia per la forza drammatica delle immagini, che per la sofferta partecipazione al travaglio del nostro tempo. Lo stesso si potrebbe dire per la visione agonizzante del secolo, espressa ne «El siglo muere»206, dove la successione degli anni -trentadue- che ancora mancano al compimento del periodo alluso è vista dal poeta in una prospettiva oscura; sono anni «podridos» e stanno fermi in mezzo al tempo «como los huesos de una res».

Il nome di Quevedo compare direttamente nel poema dedicato all'evocazione di Oliverio Girondo; Neruda riafferma la propria predestinazione alla parentela col poeta spagnolo del Seicento, la cui permanenza nel tempo viene ribadita con convinzione:


Porque yo, pariente futuro
de la itálica piedra clara
o de Quevedo permanente
o del nacional Aragón...207.

  —60→   È un'ulteriore conferma del posto che Quevedo occupa nella spiritualità nerudiana. Per Neruda egli è soprattutto il grande cantore della morte e per questo in particolare ne sente la suggestione, poiché la morte si fa largo continuamente con la sua presenza nei versi del poeta cileno, accentuata da un senso angoscioso di solitudine, che per Quevedo, al contrario, era motivo di rallegramento in compagnia dei suoi libri208. Il quevedesco «memento mori» si manifesta in Neruda ne «la advertencia / de una invariable calavera»209, de «La soledad», nell'apocalittica prospettiva dell'uomo divorato da «mandíbulas maquinarias», che domina «Muerte de un periodista»:

Preparémonos a morir
en mandíbulas maquinarias,
preparemos piernas, espaldas,
meditaciones y caderas,
codos, rodillas, entusiasmo,
párpados y sabiduría
serán tragados, triturados
y digeridos por un tanque210.



Se ne La espada encendida211 Neruda svolge, in un'originale versione delle origini umane, l'inno al trionfo della vita, pur considerando anche la morte, è solo nel libro successivo, Las piedras del cielo212, dove ritroviamo nuovamente orme di Quevedo, meglio accenti che riconducono a lui. Nella celebrazione delle pietre, cioè dei cristalli che stanno sotto terra, Neruda ribadisce, con l'immagine eraclitea del fiume, l'irreversibilità del tempo e la sua messe funebre:

  —61→  

el tiempo corre
como un río roto
que lleva graves muertos213.



E di nuovo torna a contemplare con patetica tenerezza la caduta nel «podridero», l'«envoltura frágil» dell'uomo, la sua irrimediabile debolezza:


No lo preserva el tiempo que lo horra:
la tierra de unos años lo aniquila:
lo disemina su espacial colegio214.



Per contrasto, a questa condizione peritura il poeta vede opporsi l'inintaccabilità delle pietre: «La piedra limpia ignora / el pasajero paso del gusano»215. Il concetto distruttore del tempo, l'allusione alla consumazione dell'uomo, la menzione del «gusano» riconducono al più serio e lugubre Quevedo. Il problema della vita e della morte, della transitorietà dell'essere creato ripropone nella poesia di Neruda quello fondamentale che ne tormenta tutta l'esistenza. Ma la morte non sempre è oggetto d'inquietudine; nella composizione XXX de Las piedras del cielo il poeta sembra anelare la morte in un tentativo di permanenza sopra il tempo, come le pietre preziose: «Allá voy, allá voy, piedras, esperen216.

Nell'affermazione del destino umano nelle pietre Neruda supera il senso negativo del nulla e della decomposizione, del verminaio quevedesco:


a este punto o puerto o parto o muerte
piedra seremos, noche sin banderas,
amor inmóvil, fulgor infinito,
luz de la eternidad, fuego enterrado,
orgullo condenado a su energía,
única estrella que nos pertenece217.



  —62→  

Non si dimentichi che Quevedo nel «Sermón estoico de censura moral» aveva affermato che l'uomo era discendente dalle pietre: «El hombre de las piedras descendiente / (¡dura generación, duro linaje!)»218; a indicare la rozzezza delle sue origini, la semplicità, alla quale poi aveva voluto sfuggire. Neruda sembra ricollegarsi al concetto quevedesco nel desiderio finale di trasformarsi in pietra, certo con diverso significato, quello di sopravvivere alla distruzione. Il «piedra seremos»219 sostituisce inaspettatamente nella sua poesia il «polvo seremos» tante volte ripetuto.

In Geografía infructuosa, raccolta che appare nel 1972220, il tempo è visto di nuovo nella sua imperturbabilità, che significa indifferenza di fronte al destino dell'uomo, anzi congiura verso la sua distruzione:


el tiempo inmóvil
enmascara
su rostro inevitable
y muda sin cambiar su vestidura221.



Il senso della labilità dell'uomo torna a imporsi nel poema «Pero tal vez», allorché sull'insicuro cambiamento delle cose l'essere finisce: «se ha ido uno también, con nombre y huesos»222. Perciò ogni giorno di vita è un nuovo miracolo, anche se si accentuano gli interrogativi, anche se tutto dell'uomo, anche le parole, diviene «polvo perecedero»223. Il concetto quevedesco della polvere è divenuto pienamente nerudiano, s'intende in una nota di estrema tragedia. La constatazione della brevità della vita -«y entre ir y volver se va la vida»224-, del ripetersi della morte in   —63→   ogni sera225, si accompagna a un senso cupo e rassegnato dell'indifferenziazione dell'uomo nella morte: «La muerte cae /sobre la identidad...»226. Che è sempre, per Neruda, come per Quevedo, per quanto attesa, un assalto improvviso:


basta una herida para derribarte:
con una sola letra
te mata el alfabeto de la muerte227.



Quanto profonda sia per Neruda la lezione di Quevedo è dimostrato; neppure nell'ultimo libro pubblicato in vita, Incitación al nixonicidio y alabanza de la Revolución chilena228, la presenza di Quevedo si attenua, nonostante l'impetuosità del verso, l'impegno politico, nel quale si insinuano, però, diversi momenti lirici e autobiografici, quelli che da sempre caratterizzano la poesia nerudiana. Nella XV composizione, infatti, lo scrittore spagnolo è menzionato in un'identificazione ribadita di Neruda con lui e nella lezione che per il poeta cileno ha sempre rappresentato:



Viviendo entre el océano y Quevedo,
es decir entre graves desmesuras,
leyendo el mar, y recorriendo el miedo

del poeta mortal en su lamento
comprendo la razón de mi amargura229.



La preoccupazione di Neruda per le sorti del suo paese riscatta di Quevedo, in questo momento, la partecipazione politica alla vita spagnola del suo tempo, così come il poeta   —64→   cileno partecipa di un momento storico del suo paese sotto il governo di Allende.

Neruda non disconosce la diversità del suo destino, di uomo che combatte per il riscatto della povera gente. E tuttavia, nel crepuscolo della vita, tra gli assalti del male e la coscienza già chiara, forse, della morte, il poeta sente ancor più vicino al proprio spirito il Quevedo cantore dell'amore e della morte. Come il mare, Quevedo vive in Neruda in tutta la lezione che gli è andato offrendo durante il corso della vita. Lo dimostra la composizione XXX, che intitola «Mar y amor de Quevedo»; in essa l'accento meditativo nerudiano acquista, se possibile, una nota ancor più profonda:



Aquí en mi casa de Isla Negra leo
en el mar y en el verso favorito,
en la palpitación y el centelleo

del mar amargo y del amor maldito,
la misma espuma de la poesía:
el mar que se ilumina en la ruptura

y yo leyendo con melancolía,
a Quevedo, su amor y desventura.

Tal vez es mi destino diferente:
mi pecho militar de combatiente
me inclinó a las guerrillas del Estado:

a conseguir con la paciencia ardiente
de la verdad y del proletariado

el Estatuto de la pobre gente230.



Occorre sottolineare in questi versi l'interpretazione della poesia di Quevedo quale «espuma» di tutta la poesia; e i riferimenti, nell'«amor maldito» alla tirannia dell'amore cantata dal poeta spagnolo in tanti sonetti, in particolare nel «Soneto amoroso definiendo el Amor», che inizia col verso   —65→   «Es hielo abrasador, es fuego helado»231, e nel non meno noto «A fugitivas sombras doy abrazos»232, pur avendolo definito «anima del mondo»233. Che la poesia di Quevedo divenga, per confessione esplicita del poeta cileno, il «verso favorito» ha un significato particolare alla luce degli ultimi avvenimenti riguardanti la vita di Neruda; essa rimane, infatti, l'ultimo rifugio di fronte al male e al crollo di tante illusioni.




Arriba4. Jorge Luis Borges

Non molte novità, per quanto riguarda il tema di cui mi sto occupando, sembra presentare l'opera di Jorge Luis Borges successiva al periodo già esaminato; tuttavia alcuni punti meritano ancora di essere rilevati. Le raccolte dal titolo El otro, el mismo, del 1969234, comprendente poesie del periodo 1930-1967, Elogio de la sombra, edito nel medesimo anno235, recante composizioni poetiche e prose degli anni 1967-1969, come El oro de los tigres, del 1972236, non offrono sostanzialmente elementi nuovi per quanto concerne il nostro tema. Gran parte delle poesie de El otro, el mismo era già presente, del resto, nel volume Obra poética edito nel 1964 da me utilizzato237. Tra i nuovi   —66→   poemi de El otro, el mismo tornano, accenti consueti, l'immagine del fiume, che simbolizza il trascorrere inarrestabile della vita238, l'allusione al tempo, cui in «París, 1856» pensa Heine, e che ricompare anche nel «Soneto al vino» ne «el río del tiempo»239; il tema della morte, con l'implicazione diretta della vicenda personale del poeta, si fa largo in «Los enigmas», dove la prospettiva di Quevedo viene rovesciata nell'interrogativo su ciò che attende oltre la fine:


¿Qué errante laberinto, qué blancura
Ciega de resplandor será mi suerte,
Cuando me entregue al fin de esta aventura
La curiosa experiencia de la muerte?240.



La brevità del tempo è dichiarata in «El instante»241, dove l'immagine dell'orologio diviene «la rutina» di «sucesión y engaño»; sulla vanità dell'anno, di fronte alla cieca prospettiva dell'aldilà, si afferma il valore dell'oggi: «El hoy fugaz es tenue y es eterno». Ma nei due poemi raccolti al segno dell'anno «1964», la morte diviene un bene quasi magico, una «Oscura maravilla» che «nos acecha: / La muerte, ese otro mar, esa otra flecha / Que nos libra del sol y de la luna / Y del amor...»242. Come si vede, Quevedo qui è presente per contrasto: contro l'amore che sopravvive alla morte -si ricordi il sonetto «Amor constante más allá de la muerte»243 più volte citato- Borges pone quest'ultima come distruttrice non solo della vita ma anche dell'amore. Il contatto con Quevedo sembra manifestarsi in più note nella lirica «A quien está leyéndome»244, dove confluiscono i concetti della transitorietà e   —67→   dell'irreversibilità del tempo, simbolizzati nuovamente nel fiume in cui Eraclito vide il simbolo della sua stessa fugacità, nell'allusione al marmo, ossia alla tomba che attende l'uomo, nell'iscrizione che questi «no leerá». L'uomo, è per Borges «sueño del tiempo»; la sua condizione è d'ombra; la morte è l'agguato fatale che lo attende al termine della giornata terrena, così che fin da vivo egli deve pensare di esser morto: «Piensa que de algún modo ya estás muerto»245. Nel primo dei «Poemas metafísicos» Quevedo aveva scritto:


salid a recibir la sepultura,
acariciad la tumba y monumento;
que morir vivo es última cordura246.



Oltre ai concetti, il modo di Borges di rivolgersi, in «A quien está leyéndome», sentenziosamente al lettore avvicina al maestro; come avvicina a Quevedo in «El alquimista» la considerazione finale che Dio, «que sabe de alquimia», converte l'uomo «En polvo, en nadie, en nada y en olvido»247. Modificazione originale, questa del verso citato, di ciò che Góngora scrisse nel sonetto «Mientras por competir con tu cabello»248, in cui considera la riduzione della bellezza femminile «en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada».

Anche in Elogio de la sombra Borges torna all'immagine consueta del fiume e a «Heráclito» dedica una composizione nella quale si vede personalmente identificato col fiume che tutto trascina, affermando la coscienza del proprio limite e al tempo stesso di qualcosa di misterioso e indecifrabile: «De una materia deleznable fui hecho, de misterioso tiempo»249.   —68→   Ma esiste una coincidenza evidente con quanto Quevedo ha più volte affermato, nella poesia, e nella prosa dei Sueños, che cioè la fonte della morte sta nell'uomo; Borges manifesta questo concetto nei versi finali del poema citato:


Acaso el manantial está en mí.
Acaso de mi sombra
surgen, fatales e ilusorios, los días.

Il che riconduce anche al verso di un poema amoroso del lirico spagnolo: «en esta muerte que llamamos vida»250.

Nella lirica «El laberinto251 Borges insiste nuovamente sul concetto dell'«usura de los días», sulla «pallida polvere» nella quale ha decifrato, «rastros que temo», i segni della morte, mentre ricerca angosciosamente l'«Otro». In un'altra poesia dedicata alle cose252 domina il clima di rimpianto per ciò che rimarrà sul naufragio umano, sulla nostra scomparsa, già evidente ne «La noche que en el sur lo velaron», di Cuaderno San Martín253. Ne «Las cosas» il poeta argentino sottolinea la nostra limitazione, più volte denunciata da Quevedo; ma Borges lo fa in una nuova dimensione, denunciando l'indifferenza delle cose, la loro incapacità di prendere coscienza, nella loro perdurabilità, della nostra scomparsa: «Durarán más allá de nuestro olvido; / No sabrán nunca que nos hemos ido»254.

In «Rubaiyat» il senso inquietante della polvere e del limite umano, così profondamente espressi da Quevedo, tornano a imperare. La definizione della carne come polvere, la rinnovata allusione al fiume come «huidiza imagen»   —69→   della vita «Que lentamente se nos va de prisa»255, la stigmatizzazione della vanità delle costruzioni umane, l'implicazione di un essere misterioso che perdura, per il quale «un siglo es un momento»256, tutto confluisce nell'affermazione di un'identità con la morte: «Eres los otros / Cuyo rostro es el polvo. Eres los muertos»257. Ciò riconduce ancora una volta a Quevedo, al «Sueño de la muerte».

Ne El oro de los tigres i temi della poesia borgiana si ripetono. Il poeta stesso, nelle parole preliminari alla raccolta, se ne scusa, apparentemente:

«De un hombre que ha cumplido los setenta años que nos aconseja David poco podemos esperar, salvo el manejo consabido de unas destrezas, una que otra ligera variación y hartas repeticiones. Para eludir o siquiera para atenuar esa monotonía, opté por aceptar, con tal vez temeraria hospitalidad, los misceláneos temas que se ofrecieron a mi rutina de escribir»258.



È un modo, in realtà, per affermare il valore insostituibile delle ripetizioni alluse, temi che costituiscono la sostanza della spiritualità borgiana.

Nella raccolta citata si manifesta qualche altro contatto con Quevedo, a parte la lirica dedicata «Al idioma alemán», nella quale esplicitamente Borges menziona il poeta spagnolo, affermando che suo destino fu «la lengua castellana», «El bronce de Francisco de Quevedo»259. Nel poema dedicato alle «Cosas» Jorge Luis Borges ribadisce la limitatezza dell'uomo, l'usura delle cose, alludendo al «lento polvo silencioso» che di continuo versano i giorni e le notti260. Il concetto ritorna anche nella lirica «Al primer poeta de Hungría», allorché lo scrittore argentino allude al volto di lui ormai putridume e polvere: «Tu rostro,   —70→   que hoy es pudrición y polvo»261. Non è il caso di rincorrere versi, passi circostanziati di Quevedo: basti sottolineare un'adesione divenuta ormai voce caratterizzante di un Borges che in Quevedo ha trovato lo scrittore più vicino, forse, alla propria sensibilità, ai propri problemi d'indole metafisica. Così come lo hanno trovato i poeti precedentemente trattati.







 
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