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Tra realtà e invenzione: l'immagine dell'Italia in alcuni scrittori ispanoamericani dell'otto e novecento

Giuseppe Bellini





La storia della presenza dell'Italia nel mondo ispanoamericano é particolarmente ricca e in gran parte nota, ma non tanto da essere considerata un argumento ovvio e del tutto approfondito. Sono numerose, infatti, le sorprese. Ad ogni piè sospinto ci troviamo di fronte a insospettate presenze, di cultura e d'immagine, a partire dai primi anni della formazione culturale della Colonia, quando un bresciano, Giovanni Paoli, inaugurò, nel 1535, la prima stamperia a Città del Messico, trasferendosi più tardi in Perú, dove, tuttavia, nel 1577, un torinese, Antonio Riccardi, aveva già inaugurato la prima stamperia del vicereame1.

Sono fatti apparentemente esterni; hanno invece grande rilevanza per lo sviluppo culturale dell'area messicana e peruviana, dove presto fiorisce una scuola poetica italianista rinascimentale, che dà frutti notevoli sia a Messico che a Lima, cittá, quest'ultima, dove presto fiorisce un centro che coltiva la poesía, e la lingua, italiana, l'Accademia Antartica2. Qui la poesia petrarchesca é di casa, attraverso Topera di un traduttore coito quale Enrique Garcés3, ma vi si leggono e si imitano anche altri nostri poeti, da Dante a Vittoria Colonna.

Documenti di grande importanza in questo senso sono la Miscelánea Austral (1602), di Diego Dávalos y Figueroa (1550-?), e il Parnaso Antártico (1608 e 1617), raccolto da Diego Mexía de Fernangil (1565-1620), mentre per l'area messicana l'italianismo è attestato da una raccolta pure antologica, Flores de varia poesía (1577)4.

Non ripercorrerò, qui, la storia della presenza italiana nella formazione cultúrale dell'America ispanica; questi sommari richiami valgono ad attestare un'attenzione verso l'Italia, che non si limita, certamente, al campo letterario, ma abbraccia tutto l'ampio arco della cultura, dalla poesia lirica all'epica -grande è la fortuna dell'Orlando Furioso5 e della Gerusalemme liberata6-, dalla pittura all'architettura, compresa l'arte della difesa militare: le maggiori opere di fortificazione in America si debbono a ingegneri italiani, i palazzi e le chiese più prestigiose videro il contributo dei nostri artisti e alcuni di essi, anche oscuri, ebbero modo di operare così profondamente da determinare il sorgere di movimenti locali: è il caso della scuola pittorica limegna dell'época coloniale, che promossero pittori italiani, il gesuita Bernardo Bitti, il romano Matteo D'Alessio, il napoletano Angelino Medoro.

Certo, in accordo con la cultura spagnola dell'epoca, il Rinascimento, il periodo di maggior penetrazione della cultura italiana in America si può considerare il primo secolo della Colonia, tra la fine del Cinquecento e il Seicento, benché con l'avvento del gongorismo la nostra presenza si attenui di molto. II Settecento vide una ripresa limitata, poi originalmente caratterizzata dall'opera dei gesuiti espulsi per decreto di Carlo III e rifugiatisi in Italia7. È tuttavia con il secolo XIX che la presenza culturale dell'Italia in Ispanoamerica si fa di nuovo vigorosa, anche per la presenza di numerosi immigrati, di varia condizione, soprattutto nel Río de la Plata; fortuna singolare vedono il Manzoni, il Pellico, il De Amicis, ma anche il Foscolo e il Leopardi, mentre si registra un significativo ritorno ai nostri classici, Dante e Petrarca8.

Fu in questo periodo che Mitre tradusse, con perizia e passione, tutta la Divina Commedia, impresa che lo occupò per più edizioni, fino alia morte, mentre Bello si cimentava con l'Orlando Innamorato, nella versione del Berni, dandoci un originale capolavoro di humor americano. Lo stesso Martí sentì l'attrazione del Foscolo e fu un ammiratore del De Amicis. Ma era il Modernismo che doveva dare all'Italia e alla sua cultura un luogo privilegiato. Rubén Darío fu l'espressione di un entusiasmo intelligente, che lo mise in contatto non solo con la poesia di D'Annunzio, di Pascoli, di Carducci, di Marinetti, ma con le grandi espressioni dell'arte italiana, privilegiando tra esse la pittura dei primitivi, e infine con una natura che consideró paradisiaca.

Arriviamo cosi all'età di Pirandello, quando il nostro teatro domina incontrastato in Ispanoamerica9. Ma si pensi, nel Novecento, all'entusiamso di un Borges per Dante e la Divina Commedia, all'influenza di De Chirico su un poeta e drammaturgo inquietante come il messicano Xavier Villaurrutia, a Neruda, ad Asturias, a Pablo Antonio Cuadra, per non fare che alcuni nomi, e si coglierà la dimensione profonda del legame che unisce l'America all'Italia, dell'immagine che questa ha nel mondo ispanoamericano.

Tra l'Ottocento e il Novecento l'immagine dell'Italia nell'America di lingua spagnola assume particolari caratteristiche, si libra tra la realtà e la fantasia, è generalmente frutto dell'entusiasmo culturale, ma non mancano crude constatazioni e denunce. Intanto, già sul finire del secolo XIX si incomincia a viaggiare e non sono infrequenti i soggiorni di taluni esponenti della cultura ispanoamericana che soggiornando nel nostro paese lo fanno oggetto di riflessione e ne tracciano un'immagine particolare.

II primo viaggiatore e letterato entusiasta, ma anche disincantato nei confronti del nostro paese è Sarmiento. Quanto Bello era aperto nei confronti della nostra cultura, altrettanto si dimostra chiuso l'argentino. Sul finire del 1845 egli inizia un viaggio in Europa, inviato dal ministro cileno Montt, suo protettore nell'esilio, per studiare l'organizzazione dell'insegnamento primario; nel 1847, ai primi di febbraio, egli sbarca a Civitavecchia e 1'8 è a Roma. Sono passati appena otto mesi dall'elezione di papa Pio IX, il cui riformismo Sarmiento ritiene dovuto al suo contatto con la realtà americana quando fu Nunzio in Cile.

L'autore di Facundo è a Roma un turista che s'inebria delle bellezze monumentali della città. Nel suo Viajes por Europa, África y América (1845-1847), che pubblica nel 1849, vi sono descrizioni numerose, di Roma, di Pompei, di Napoli e del Vesuvio. E forse, come afferma il Palcos10, l'argentino coglie per la prima volta il valore dell'arte, ma con insofferenze incomprensibili, ad esempio, per Venezia, per la pittura del Tiziano e del Veronese. La sua preferenza va al panorama, più che alle architetture. L'Italia che esce dalle sue riflessioni è un mondo che si afferma tra lo splendore e il fango. Dopo Roma, lo colpisce Firenze, come qualcosa di liberatorio:

Cómo respira uno en esta bella Florencia cual si después de larga tempestad ganase el deseado puerto, porque Roma admira y aflige, y su campaña emponzoña y oprime. Llegando a Florencia créese salir de la mansión de los muertos a un rico oasis de verdura [...]11.



Le condizioni sociali di estrema miseria dello Stato Pontificio colpirono profundamente Sarmiento, che le vedeva in stridente contrasto con i monumenti dell'antica grandezza romana, con la ricchezza della nobiltà e della chiesa. Se il messicano Fra' Servando Teresa de Mier (1763-1827) faceva di Roma, e quindi dell'Italia, «el país de la perfidia y el engaño, del veneno; el del asesinato y el robo», dove la gente vive «de collonar, como ellos dicen, los unos a los otros»12, l'argentino, mosso da vive istanze sociali, coglie lo stato di decadenza e di povertá delle popolazioni, facendone colpa esclusivamente ai governi incapaci e non rappresentativi.

Anche la campagna romana gli si presenta come un luogo ecológicamente perduto, pur se non riesce a sottrarsi al richiamo di un passato glorioso:

¡Qué miseria y qué abandono! ¿Por qué no trabaja este pueblo? ¿Por qué sus habitaciones son tan ruines, tan descuidada la cultura, y tan desaliñados los vestidos de los habitantes? Recuerdo que el P. O'Brien me decía una vez que descendíamos por la tarde del Monte Pincio: «¡qué silencio en la ciudad que ve Ud. ahí! ¡Qué vida tan quieta, tan tranquila se pasa aquí!». Yo echaba involuntariamente, por toda contestación, una mirada triste y prolongada sobre los alrededores de Roma, desolados, yermos, salvajes. ¡Qué contestarle a aquel bendito padre, que vivía contento con la escasa limosna del Hospicio dominico de Santa María supra Minervam! ¡El convento sobre el orgullo de los antiguos dominadores de la tierra!

Aquella vieja Roma estaba fundada sobre un pedazo de tierra moderna, de ayer. Los volcanes han trastornado la tierra, los lagos son cráteres, los arroyos ruedan espesos de azufre y de betún, y en la oscuridad de la noche despiertan al viajero los vapores sulfurosos y tibios que penetran por la ventanilla de la diligencia [...]13.



Un'immagine sconcertante, come si vede, destinata a dominare con effetti contrastanti, come visione dell'inferno, tutto il viaggio italiano di Domingo Faustino Sarmiento. Forse ancora influenzato dai miasmi delle Paludi Pontine egli vede negativamente anche Venezia, ma a questa visione negativa contribuisce la situazione política e un'immagine falsa e retorica dell'antica repubblica veneziana: la grande potenza è finita, caduta nelle mani degli austriaci. Sarmiento vede in questo il compiersi di una sorta di giustizia contro la perfida città:

¡Venecia! ¡Pobre esqueleto de república! ¡Tus lagos, centro en otro tiempo del comercio del mundo, infestan hoy con su aliento nauseabundo; los palacios de tus nobles sirven de posada para el extranjero, como las ruinas de los templos de Egipto de aprisco a los ganados! Tus maravillas están ahí de pie aun, como cadáveres petrificados. [...] ¡Ay! ¡Los crímenes de los gobiernos los pagan caro los pueblos, y es fortuna que nada quede impune! Habías ofendido la moral con tus horribles leyes, y fuiste suprimida, pisada como un monstruo que sobrevivía del mundo antiguo14.



Neppure la bellezza del Canal Grande riesce a riscattare Venezia nella sensibilità di Sarmiento. Tutto è segno per lui di rovina; anche la gondola nera è simbolo di morte. Uomo di terraferma, l'argentino non riesce a comprendere questo mondo di acque, dove non si vedono né cavalli, né buoi, né cani: «Todo ha muerto en Venecia, menos la policía inquisitorial que la continúa el Austria»15.

Leggendo queste pagine del Diario, si ha l'impressione di una disorientamento totale. L'uomo dei grandi spazi naturali non riesce a comprendere le proporzioni limitate del paesaggio italiano, il modo di vivere di questo popolo, così diverso da quello cui è abituato, così passivo di fronte alia propria decadenza che neppure la bellezza dell'arte e della natura può riscattare.

Occorrerà attendere Rubén Darío (1867-1916) per avere un'immagine del tutto opposta, delirante quasi dell'Italia. Per il grande poeta del Modernismo, permeato di cultura italiana, entusiasta della bellezza, innamorato dell'Italia non meno che della Francia e della Grecia, l'immagine del nostro paese si fa solare. Quando, nel 1900, compie il sospirato viaggio nella nostra terra, egli è già cosi permeato di spirito italiano, che tutto diviene per lui meraviglioso, tutto si idealizza quale parte già del suo mondo interiore, diviene fonte della felicità:

Estoy en Italia -scrive-, y mis labios murmuran una oración semejante en fervor a la que formulara la mente serena y libre del armonioso Renán ante la Acrópolis. Una oración semejante en fervor. Pues Italia ha sido para mi espíritu una innata adoración; así, en su mismo nombre hay tanto de luz y de melodía, que eufónica y platónicamente, paréceme que si la lira no se llamase lira, podría llamarse Italia. Bien se reconoce aquí la antigua huella lacónica. Bien vinieron siempre aquí los peregrinos de la bellezza de los cuatro puntos cardinales. Aquí encuentran la dulce paz espiritual que trae consigo el contacto de las cosas consagradas por la divinidad del entendimiento, la visión de suaves paisajes, de incomparables firmamentos, de mágicas auroras y rica naturaleza; la hospitalidad de una raza vivaz, de gentes que aman los cantos y las danzas que heredaron de seres primitivos y poéticos que comunicaban con los númenes; y la contemplación de mármoles divinos de hermosura, de bronces orgullosos de eternidad, de cuadros, de obras en que la perfección ha acariciado el esfuerzo humano, conservadoras de figuras legendarias, de signos de grandeza, de simulacros que traen al artista desterrado en el hoy fragancias pretéritas, memorias de ayer, alfas que inician el alfabeto misterioso en que se pierden las omegas del porvenir [...]16.



È questa una delle pagine più deliranti di entusiasmo di Darío, riconoscente al mondo italiano per quanto gli ha dato di cultura e di bellezza, di poesia e d'arte. La presenza culturale del nostro paese suscita nel poeta nicaraguense un'immagine magica. Per lui l'Italia rappresenta l'essenza del passato e la vitalità del presente. Il giardino della bellezza, il regno dell'azzurro e del sole ripetono in Darío l'attrazione che il mondo italiano esercitò su tanti artisti di ogni tempo, ma nel poeta nicaraguense percepiamo un entusiasmo inedito, che affonda le sue radici in un mondo particolare, fatto di classicità e di mito, un mondo della bellezza e dello spirito, nel quale convergono un passato favoloso di cultura, le pittura del Beato Angelico, di Leonardo, di Tiziano, le visioni del Piranesi, la luminosità di una Napoli incantevole, città di Zeus, regno della bellezza e del sole, il paesaggio romano, Firenze centro vivente della cultura. La parola del poeta tenta di esprimere l'ineffabile; il palpito dell'uomo si fonde con quello del mondo. È, forse, anche un modo per reagire al peso del tempo e dell'età. Si capisce, allora, come Venezia appaia a Darío come qualche cosa di esterno, di inquietante e falso, con un richiamo alla propria stagione vitale: «¡Qué hermoso escenario para veinte años vírgenes en una lira! Yo tengo casi el doble, y sin palma; y el instrumento apolíneo creo que se me quedó en Buenos Aires»17.

Ciò non intacca, tuttavia, l'entusiasmo fondamentale di Darío per l'Italia; egli arriva al punto di formulare una singolare teoria curativa, l'«Italoterapia» nella conclusione di Tierras solares:

El mayor sistema de curación para la fatiga de las inmensas capitales, para el hastío del tumulto, para la desolante neurastenia que os hace ver tan sólo el lado débil y oscuro de vuestra vida: este sol, estas gentes, estos recuerdos, esta poesía, estas piedras viejas18.



Nel Canto a la Argentina il nostro paese sará celebrato, infine, come «Italia sacra a las gentes»19. Nessuno più di Darío ha mitizzato positivamente la nostra terra.

Anche l'uruguaiano José Enrique Rodó, che si reca in Italia nel 1916 -e morirà a Palermo il 1.º marzo 1917-, avrà un'idea positiva del nostro paese, soprattutto per la sua cultura, per l'arte di cui vede ricolme le numerose città che visita, in particolare Firenze. Ma l'immagine che egli proietta dell'Italia appare legata più al fascino delle rovine, alia suggestione e al culto della grandezza defunta, che non alla vitalità del presente. Ciò che lo entusiasma a Firenze è quanto richiama, attraverso l'arte, l'età dei Medici, e vedendo il Perseo il «Dulce tiempo que fue...», la «radiante luz del mediodía» di un'età di cui il capolavoro di Cellini vide solo il tramonto, quella di Raffaello, di Leonardo, di Andrea del Sarto20. Il suo pessimismo, frutto delle delusioni degli ultimi anni, lo porta a ripudiare l'età presente. A Pisa rivive, attraverso l'arte e la storia, epoche preterite di grandezza, che colora di un velo di malinconia, quella stessa che di fronte alla campagna romana gli fa pensare al tramono delle grandezze e all'Epístola a Fabio, di Rodrigo Caro:

Se busca a Fabio, en este campo de soledad, para comunica la tristeza de la contemplación, y se piensa en el epitafio que compondría si se apareciese en estos escombros la animula vagula blandula del césar viajador y poeta que realizó aquí -allude a Tivoli- su sueño de arte21.



Per Rodó l'Italia è, insomma, un motivo di contemplazione della belleza, e di riflessione personale.

Nel secolo XX alcune figure rilevanti della letteratura ispanoamericana interpretano il nostro paese e ne diffondono un'immagine particolare. Accennerò a due sole figure eminenti, Neruda e Asturias.

Nella sensibilità e nella storia personale di Neruda l'Italia ha un posto di rilievo. Egli la interpreta, soprattutto in Las uvas y el viento, come la «patria del racimo», con tutto ciò che di vitale ha nella simbologia nerudiana il grappolo, l'uve, pienezza della vita. La sua convinzione è che il suo approdo all'Italia era predestinato ed è il motivo per attingere antichi valori, come nell'Arno, dal quale sente venire «viejas palabras que buscaban mi boca», il miele prima sconosciuto, il ritrovamento della «delicia»22. Questa ricchezza sta nella bellezza della cità, ma in particolare nella sua gente e presto l'incanto della cultura è soppiantato da quello di una intravveduta realtà nuova di progresso nella libertà, di richezza umana nella semplicità.

Esperienze negative non scalfiscono l'entusiasmo nerudiano per il nostro paese, perché nella sostanza la sua carica suggestiva sta nell'essere patria dell'amore. Capri è l'isola divina nella quale avviene l'incontro decisivo tra Neruda e Matilde Urrutia. Ne La cabellera de Capri il poeta cileno celebrerà con delicati e vitali cromatismi la «reina de roca», Capri come una mitica germinazione marina:


Su traje de zafiro
la isla en sus pies guardaba,
y desnuda surgía en su vapor
de catedral marina.
Era de piedra su hermosura. En cada
fragmento de su piel reverdecía
la primavera pura
que escondía en las grietas su tesoro.



Ma vi sarà anche qualche cosa di piú valido dal punto di vista culturale che in Neruda costruirà l'immagine dell'Italia. In Confieso que he vivido scrive:

La tierra de Italia guarda las voces de sus antiguos poetas en sus purísimas entrañas. Al pisar el suelo de las campiñas, al cruzar los parques donde el agua centellea, al atravesar las arenas de su pequeño océano azul, me pareció ir pisando diamantinas substancias, cristalería secreta, todo el fulgor que guardaron los siglos. Italia dio forma, sonido, gracia y arrebato a la poesía de Europa; la sacó de su primera forma uniforme, de su tosquedad vestida con sayal y armadura. La luz de Italia transformó las harapientas vestiduras de los juglares y la ferretería de las Canciones de Gesta en un río caudaloso de cincelados diamantes23.



L'entusiasmo nerudiano è assai vicino a quello di Darío, il poeta, in fin dei conti, al quale si è mantenuto più vicino.

Per Miguel Ángel Asturias l'Italia era destinata a diventare quasi una seconda patria, soprattutto durante una dura esperienza di esilio. Al nostro paese lo scrittore guatemalteco rimase poi sempre profundamente legato, con un particolare affetto che si concentrò su una sorta di paesaggio tra il fantastico e il reale, quello di Venezia, che divenne, in sostanza, simbolo dell'Italia. I Sonetos venecianos sonó la prova concreta dell'adesione di Asturias a un'Italia che interpretava soprattutto attraverso la città lagunare e le sue architetture fantastiche. Sull'artista esercitava intima suggestione l'evocazione di un passato meraviglioso, storicamente defunto ma ancora ben vivo nella bellezza dell'arte e della natura. La città lagunare è vista da Asturias come luogo di irripetibile magia al di fuori di ogni realtà ripetibile:



Aquí todo es ayer, el hoy no existe,
huye en el agua, corre en los canales
y va dejando atrás lo que subsiste,

fuera del tiempo real, en las plurales
Venecias que nos da la perspectiva
de una Venecia sola, aquí cautiva24.



II paesaggio veneziano, che sfuma nell'irreale, ha il potere di risuscitare nel poeta guatemalteco la preoccupazione maya del tempo. Venezia si presenta ad Asturias come un ponte tra l'Italia e la patria che non può raggiungere. Nella sospensione irreale dei palazzi, tra mare e cielo, in mezzo a cose e ad animali che accentuano il senso del mistero, la realtà si dissolve in magia, incorniciata dalla pittura splendente del Carpaccio. Ha confessato in una occasione di non aver potuto mai stabilire se Venezia esisteva come lui la conservava nelle sue evocazioni o se invece l'aveva inventata come una leggenda25. Ad ogni modo questa immagine della città colorava in Asturias quella dell'Italia.

I riferimenti ad altri letterati ispanoamericani, per quanto riguarda l'argomento assunto, sarebbero, naturalmente innumerevoli. La mia intenzione è stata di richiamare l'attenzione su alcuni nomi eminenti e su come essi hanno sentito e interpretato il nostro paese, diffondendone un'immagine originale fondata sul proprio personale impatto con esso.





 
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