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Vita, amore, morte. I doveri oltre i piacere nel «Tirant lo Blanc»

Giuseppe Grilli


Istituto Universitario Orientale-Napoli



Nel capitolo XXI del Quijote (1605) Sancho chiede di interrompere la regola del silenzio. Ricevuta l'autorizzazione, purché sia rapido ed essenziale («que ninguno hay gustoso si es largo»1), lo scudiero propone una radicale inversione di rotta nell'avventura. Non si tratta di continuare a sbattersi per strade e contrade, ove le imprese rimarranno condannate all'oblio, ma di aggregarsi ad una corte. Lì troverà modo il cavaliere di eccellere: otterrà dunque remunerazione e fama. Don Quijote, forse consapevole della difficoltà in cui si è cacciato, nell'accedere alla richiesta di dialogo, fa buon viso. Ammette l'opportunità e promette che, appena superato il periodo di apprendistato in fama e onori elle è giocoforza si svolga nell'ambito della cavalleria errante, si porrà stabilmente al servizio di un re o imperatore, onde, più agevolmente, potrà disporre di quel potere di investitura ai cui effetti Sancho non rinuncia per sé e per i suoi, Alla conclusione, che resta a carico di Don Quijote, «venir a ser rey y el hacerme conde»2, si adatta Sancho, fiducioso. A tale fiducia non è estranea la sinopsi che lo stesso Quijote gli ha recitato del come e del quanto impero egli giungerà a conquistare per diritto d'armi e d'amori. La fabula, che l'hidalgocaballero ha esposto, attenendosi scrupolosamente alla regola da lui stesso enunciata della brevitas, è stata indicata da Givanel i Mas come uno schema prossimo alla trama del Tirant lo Blanc3. I punti di maggior somiglianza sono nel collegamento tra fatti d'armi, con cui il cavaliere conquista la fiducia e la riconoscenza del vecchio imperatore, e sue abilità amatorie, per cui l'infanta erede del trono finisce per sposarlo recando ricca dote.

Qualsiasi lettore del Tirant si avvede facilmente che l'ipotesi di un collegamento tra la trama del romanzo, soprattutto nella sua parte centrale, e il modello narrativo esposto da Don Quijote, ha un qualche fondamento. Tuttavia, e al di là di una somiglianza di superficie, si dovrà ammettere che i tratti di utile comparazione riconducono a una essenzialità di cui partecipano anche altri romanzi o libri di cavalleria. Non è dunque nelle figure del vecchio imperatore, della giovane e bella erede del trono o in quella del giovane cavaliere, ricco d'ambizione non meno che di coraggio, il segnale di una corrispondenza significativa, se non univoca. Infatti nella fabula cervantina, immaginata da Quijote e presa per buona da Sancho, superati certi ostacoli, di cui il maggiore sembra essere la condizione modesta, se non infima, del cavaliere pretendente, con o senza la collaborazione delta doncella dell'infanta, con o senza il consenso dei genitori, l'eroe convola a giuste nozze ed eredita il trono. Come sappiamo, net Tirant l'esito è tutt'altro. Né ci saranno nozze vere e proprie, né i giovani amanti erediteranno nulla. A godere del ricco bottino saranno altri: il regno è, net romanzo di Martorell, per il criat di Tirant. Forse proprio in questa delusione annunciata possiamo rinvenire il tratto di confluenza con il modello cervantino. Obiettivo vero del lavoro del campione è di assegnare ad altri la ricompensa. Tutta l'esemplificazione cervantina aveva avuto origine da una richiesta esplicita di Sancho ed è consistita nell'appagamento di essa ad opera di una risposta di Don Quijote perfettamente in accordo con quella che è già, e si confermerà net romanzo, una delle sue maggiori abilità: la critica letteraria. Ma ciò non modifica il fondo del tema: net Quijote, cosí come è già accaduto net Tirant, il premio è per lo scudiero, non per il protagonista che ha dato il nome all'avventura narrativa.

Il principio parodico sappiamo che costituisce l'istanza fondamentale nella costruzione cervantina, esso però non traspare con uguale evidenza net libro di Martorell. Eppure anche a non voler assegnare al senso globale delta trama il sentimento della «sconfitta» del protagonista, così come si è accennato commentando la richiesta di Sancho, converrà esaminare più da vicino il motivo che conduce Tirant a far testamento in favore del suo «criat e nebot Hipòlit de Roca Salada». Un testamento che, oltre ai beni materiali, di cui si dà sommarissima e imprecisa indicazione, consegna all' «hereu universal» tutti i diritti dell'eroe, quelli che egli afferma: «mitjançant lo divinal adjutori jo m'he sabut guanyar, e per la majestat del senyor Emperador m'és estada feta gràcia»4. Sappiamo dall'epilogo che, morti in rapida successione Tirant, Carmesina e il vecchio Emperador, Hipòlit fa buon uso del testamento di Tirant cingendo l'agognata corona dopo le nozze con l'imperatrice vedova e, appena morta anche costei, fonda una nuova dinastia sposando una figlia del re d'Inghilterra.

La domanda a questo punto è: perché la realizzazione del programma (o del sogno) del protagonista ricade su un personaggio altro? La spiegazione più semplice, ma non per questo da scartare, è che l'eroe è portatore, oltre che di valori ed abilità, anche di una colpa che lo rende inservibile per il conseguimento dell'obiettivo finale. In vero Tirant nel corso del romanzo non si macchia di colpa alcuna, né emerge alcun carico che ne comprometta la dignità e l'onore. La sua origine non è mai chiarita, ma non nel senso che si metta in dubbio la nobiltà dei suoi natali, quanto in quello più circoscritto di un'attribuzione di un titolo feudale. Ciò, però, non può costituire colpa sufficiente a decretarne la rovina: se non sappiamo di più di lui, nemmeno è ammissibile che debbano ricadere sul giovane responsabilità non sue. Tirant nasce all'avventura da solo, in quella senza celebre che lo vede addormentato sul suo cavallo giungere all'eremo del Rei-Ermità. È a partire da quest'incontro che entra nel romanzo, già avviato e giunto al capitolo XVIII, e inizia il suo addestramento. Esso, però, a differenza di quanto non creda Don Quijote (o faccia credere a Sancho nel capitolo XXI del suo libro), non si compie mediante vagabondaggi e imprese in «desiertos y encrucijadas de caminos»5, ma mediante la lettura.

Al libro di cavalleria lo introduce l'eremita, poi gliene fa dono, e nel libro Tirant dapprima solitario, successivamente con i suoi compagni ritrovati, scopre le ragioni che lo indurranno a essere il cavaliere vittorioso delle gare matrimoniali indette dal Re inglese.

Un anno e un giorno Tirant è stato a corte, ma nulla vi ha appreso. Certo che ha ricevuto tutti gli onori e, primo tra essi, l'investitura di cavaliere dell'ordine della Giarrettiera6. Ma di quel tempo, e di ciò che lo ha riempito, sappiamo tramite il resoconto che lo stesso Tirant e il cugino Diafebus ne daranno all'Eremita al ritorno. Un'occasione questa di racconto a cui non si sottraggono né le bravure erotiche dell'eroe (o almeno le chances che dimostra di avere con la bella Agnès), né gli statuti della Giarrettiera, passando per le feste di palazzo e l'Entremès de la Roca. Tirant, insomma, è pasato dalla condizione di giovane da formare a quella di cavaliere perfetto senza alcuna mediazione, prova, iniziazione, se non appunto quella della lettura. Per farlo, così com'è, sono stati sufficienti il nome, l'origine e il libro dell'eremita. Cominciando da quest'ultimo è facile argomentare che si tratta di un rifacimento del Llibre de l'ordre de cavallería di Ramon Llull7; quanto al nome ci sono buone probabilità per metterlo in relazione con la deformazione del patronimico di un personaggio storico del XV secolo, János Húnyadi, voivoda di Ungheria8; resta da spiegare l'origine. Tirant è bretone, come vuole la grande tradizione narrativa del Medioevo, da Thomas a Malory che riscrisse in inglese tutta la storia di Artù e dei suoi quasi negli stessi anni in cui Martorell «traduceva» dall'inglese il suo romanzo biografico, o verdadera historia di Tirant lo Blanc. Ma a differenza dei suoi antecessori bretoni non è afflitto da nessun gravame. Anzi, se assumiamo il riferimento più cospicuo della tradizione del roman, quello di Chrétien, riscontri amo un'ulteriore differenziazione. La fatica, il dolore, la fama non compaiono mai9, neppure in sordina, a far da contorno o da sfondo alle imprese tirantiane, mentre costituiscono un ingrediente non eliminabile del racconto francese. Preciso nei dettagli anche minimi, l'autore del Tirant affonda le sue radici narrative negli avvenimenti storici, nei dati geografici, si preoccupa di dar concretezza e precisione ad elementi sussidiari della narrazione riferendo con esattezza delle lettere di battaglia o delle stoffe degli abiti preziosi, delle tecniche militari o degli ingredienti della tavola, ma ignora olimpicamente che i suoi personaggi si accampano in una società retta dal bisogno oltre che dal piacere.

Ignaro del dolore, oltrecché innocente, perché mai Tirant paga con la morte un'esistenza esemplare? Delle due una: o il mondo è profondamente ingiusto e retto dal caso, o avversa fortuna, oppure una qualche ragione per un esito nefasto deve essere ricercata nella storia del personaggio. La prima ipotesi, che è tutt'altro che peregrina e che costituisce l'ideologia di fondo del capolavoto di Corella, un autore abbondantemente plagiato da Martorell nel Tirant e dal quale è copiato nientemeno che il lamento funebre di Carmesina sul tumulo dell'eroe bretone10, appare comunque improbabile. Un romanzo di vaste proporzioni, con un exordio di chiara impronta lulliana e, quindi, con una implicita vocazione pedagogica (seppur rivolta in un piano parodico), con un gran dispiego di avventure e personaggi secondari, difficilmente si può costringere nelle maglie di una letteratura «per gioco». Un qualche senso deve pur esprimersi nell a storia. Inoltre l'intreccio principale, culminando in una piccola ecatombe, individua un contenuto tragico di cui non si può prescindere. Ad esso si perviene lentamente. Trascorrono anni tra l'arrivo di Tirant a Costantinopoli, e il suo primo incontro con Carmesina, e il fatale desenlaç della storia. La fortuna, identificata nelle trame della Viuda Reposada prima, nel naufragio e cattività in Nord-Africa poi, non ha agito però mai isolatamente. I protagonista del romanzo hanno prestato ad essa un supporto se non sincero, almeno ingenuamente partecipe. Carmesina e Plaerdemavida, interpretando con convinzione la farsa che la Viuda ha tramato, Tirant credendo al gioco degla specchi e scendendo in giardino per uccidere l'innocente Lauseta, non per smascherare gla attori fallaci del teatrino, si sono piegati agevolmente ai disegni del destino invidioso11.

Naturalmente c'è dell'altro che può essere imputato ai due amanti: gla amoni clandestina e giunti a compimento contra le giuste leggi: almeno ciò confessa la Princesa sul letto di morte. Ma è ben strano che l'adulterio di Hipòlit ottenga il premio, mentre le tribolazioni prematrimoniali di Tirant e il «matrimonio segreto» meritino invece il castigo della provvidenza. L'errore di Tirant è dunque altrove. Come intuì Avalle-Arce il suo è, tutto sommato, un fallo letterario, piuttosto che morale12. Tirant, e con lui Martorell, contamina il suo libro di giostre e cavallerie erranti con vere e proprie spedizioni. Dal momento in cui, come suggerisce di fare Sancho a Quijote, si mette al servizio di un re, trasforma la sua biografia rettilinea in una esperienza duttile, che aderisce alle circostanze e se ne giova13. Anzi, sin dal primo incontro con i nuovi scenari dell'avventura __il mondo aperto del mediterraneo vs il campo chiuso delle giostre e tornei__ mette in scacco la sua identità. Da cavaliere si fa uomo di corte, provetto damerino, dotto rielaboratore di racconti tradizionali e, soprattutto, servus fallax di Felip de França di cui favorisce gli amori ingannando la pur arguta Ricomana. Né questa è azione isolata. Tirant torna a svolgere un ruolo celestinesco suggerendo ad Hipòlit di intrattenere l'Emperadriu con conversazioni temerarie. In qualche caso combina il matrimonio direttamente, come con Plaerdemavida e il senyor d'Agramunt, o ne favorisce l'esito, come con Diafebus e Estefania. In vero persino quando è lui stesso affetto da malattia d'amore riscopriamo che c'è una nota stonata, un elemento non riassorbibile nel ruolo e nella casistica codificati14. Ma su questo punto vale la pena soffermarsi.

Sono due i momenti critici nella storia amorosa di Tirant. Uno attiene alla dinamica narrativa, l'altro alla caratterizzazione della esperienza. Quanto alla prima il primo tratto che rileviamo è nella singolarità. Tirant è il solo, tra i molti amatores del romanzo a subire il trauma dell'innamoramento. Anche chi è travolto da una passione tanto forte da spingerlo a morire per essa, come il cavaliere di Vilesermes, o chi si slancia in una relazione di totale compenetrazione amorosa, come Diafebus, riesce a sfuggire agli strali micidiali di Venere e del dio Amore. Figurarsi poi nel caso di Plaerdemavida che sposa il cugino di Tirant solo per compiacere l'eroe amatissimo o di Hipòlit che passa allegramente dalle grazie acerbe de lla donzella di Carmesina alla maturità febbricitante delia madre15, anziana ma non rassegnata Emperadriu. Tirant è il solo ad amare, a saperlo e a soffrirne. Tuttavia pur nella condizione specialissima in cui si trova, a cui né giovano i consigli di Diafebus né i medici dell'Emperador, Tirant è presente a se stesso. Non soltanto non rinuncia alle sue più importanti missioni militari e politiche, ma nel corso di esse modifica sostanzialmente l'oggetto d'amore nella sua condizione sociale: non più genericamente Infanta, ma Princesa, con un ruolo e un compito ben precisi da subito nella amministrazione dell'impero16. E ciò non è isolabile dal rapporto personale, ché la Princesa rifiuta ogni rapporto di senyoria e solo accetta amor, anche in presenza d'altri17.

È dunque da ritenersi una sorta di manifestazione teatrale anche il comportamento amoroso di Tirant? Non credo. Le sue inappetenze, seppur parzialmente vinte per rispetto sociale, sono sincere. Quando gli si chiede l'origine dei suoi mali e risponde «jo ame» si comprende che l'essenzialità della affermazione travalica la possibilità di una finzione. Il mal d'amore è autentico. C'è semmai da chiedersi in cosa consista e come Martorell reinterpreti la ricchissima tradizione. Non è cerco il caso di ripercorrere qui le tappe del passaggio della «materia ovidiana» dal Medioevo al Rinascimento18. È questo un tema che gode di abbondante bibliografia ed anche il luogo che vi occupa il Tirant è stato studiato a più riprese con diversa sensibilità. Mi limito pertanto a ricordare solo un paio di evidenze non sempre tenute però nel debito conto. Martorell affronta il motivo erotico a partire da March. Oltre ai vincoli personali che lo legavano al grande rinnovatore della lirica del XV __March è sicuramente il più originale e compiuto nella forma, oltre che nei contenuti, tra i poeti iberici del quattrocento__, è stato sottolineato da Riquer e da McNerney come in più occasioni, non secondarie, il riferimento diretto a versi ausiasmarchiani connoti il testo narrativo del Tirant19. Il discorso erotico del romanzo, dunque, parte da una precisa e databile rilettura e reinterpretazione dell'esperienza erotica in letteratura. Altro tratto distintivo è che nel romanzo le sequenze amorose si collocano in una strategia complessiva di sviluppo dell'azione. È giusto quindi ricomporle in una sezione compatta, ma anche leggerle nella specifica dinamica in cui si collocano nel testo. In tal senso bisogna distinguere tra un discorso sull'amore, più o meno astratto, una sua applicazione a determinati personaggi, la sua manifestazione in scene esemplari, in episodi (innamoramento di Tirant, seduzione di Estefania, amori dell'Emperadriu, ecc.), l'impatto dell'esperienza erotica nei diversi personaggi (motivi del desiderio nell'Emperador o in Plaerdemavida) e discussione tra i personaggi del motivo amoroso20.

È significativo infatti dove, quando e come si ponga la questione: «quina cosa és amor?»21. Siamo ancora alla corte di Sicilia. L'Infanta Ricomana per mettere alla prova Felip invita tutti ad una cavalcata fuori palazzo subito dopo una pioggia improvvisa e violenta. Felip nel corso della passeggiata è ossessionato dal timore di infangarsi le belle vesti. Tirant lo riprende senza mezzi termini, condannando timori ed avarizia, fino ad umiliarlo: «Cansat estic de tal raó e de vostra pràctica tan deshonesta. La roba ja no es pot guastar més del que és. No tingau més pensament, que jo us daré la mia»22. Naturalmente di tutto ciò non fa trapelare nulla a Recomana e copre i fragori della discussione con crepitan te rialles. L'Infanta, che sciocca non è, chiede perché mai ridano tanto i due bei francesi ed è a questo punto:

__Per ma fe, senyora __dix Tirant__, jo em só ris d'una demanda que Felip hui tot lo dia me fa, ans que partíssem de la cambra de vostra altesa e aprés com cavalcam, e ara a l'entrant de l'aigua: me demana quina cosa és amor e d'on proceeix. La segona cosa que m'ha dit: ¿on se pon amor? Sí Déu me dó honor, jo no sé quina cosa és amor ne d'on proceeix, però creuria que los ulls són missatgers del cor; l'oir és causa que es concorda ab la voluntat, l'ànima té molts missatgers los quals esperança aconsola, los cinc senys corporals obeeixen al cor e fan tot ço que ell los mana, los peus e les mans són súbdits a la voluntat, la llengua, multiplicant en paraules, dóna remei en moltes coses en l'ànima e en los cos e a tot quant és, e per ço se diu aquell refrany vulgar: lla va la llengua on lo cor dol. Perquè, senyora, la vera e lleal amor que Felip vos porta no pot tembre res.

__Tornem __dix la Infanta__ devers la ciutat.23



L'episodio precede di non molte pagine l'incontro tra gli occhi di Tirant e «les pomes de paradís» dell'altra Infanta, Carmesina di Costantinopoli. Nulla nel momento dell'innamoramento del cavaliere bretone lascia supporre un motivo parodico. La malattia amorosa è autentica. Tuttavia nella descrizione della fenomenologia del male si notano degli elementi di interesse, originali. Innanzi tutto, come è stato più volte notato, vi è lo spostamento dell'incontro tra gli occhi, che lo stesso Martorell ha definito poco prima «missatgers del cor», e cattura di essi da parte di un «jamés rebut past» consistente in «pomes de paradís», ma soprattutto la promessa che il laccio lanciato non sarà spezzato «fins que la mort dels dos féu separaciò»24, ove si anticipa a questo momento aurorale il tema della conclusione tragica della storia. Una tragedia del tutto inmotivata, come si accennava sopra, sul piano di una simbologia della colpa e della punizione, ma non senza riferimenti sul piano della fiction, ché, compiuta la visione meravigliosa, «L'Emperador pres per la mà a sa filla Carmesina e tragué-la fora d'aquella cambra. E lo Capità pres del braç a l'Emperadriu e entraren en un altra cambra molt ben emparamentada e tota a l'entorn historiada de les següents amors: de Floris e de Blanxesflors, de Tisbe e de Píramus, Eneas e de Dido, de Tristany e d'Isolda, e de la reina Ginebra e de Lançalot, e de molts altres, que totes llurs amors de molt sobtil e artificial pintura eren divisades»25. Proprio a questa natura sobtil e artificial dobbiamo il carattere di tragedia che assumeranno gli amori di Tirant e Carmesina adattandosi nella conclusione a modelli di cui si è ormai persa la motivazione strutturale, ma non il gusto e la cadenza. Il piacere del racconto è, dunque, per Martorell del tutto indipendente dall'ideologia che dovrebbe sorreggere le azioni e le motivazioni dei personaggi. Non a caso subito dopo Tirant commenta al cugino Ricard: «No creguera jamés que en aquesta terra hagués tantes coses admirables com veig». Ricard crede che egli alluda agli affreschi (e cioè alle teorie tragiche degli amori del passato iconografico e letterario), mentre Tirant «deia-ho més per la gran bellea de la Infanta»26. È perciò questa bellea, ed essa sola, la causa della rovina dell'eroe.

La caratterizzazione dell'innamoramento di Tirant come cattura e caduta nei mali d'amore secondo una specifica deviazione di percorso rispetto ai modelli del roman, ma con un occhio fisso in essi, viene ad essere corroborata dalla esemplificazione retorica della malattia. Tirant, interrogato su di essa, afferma che «jo no tinc altre mal sinó de l'aire de la mar qui m'ha tot comprès». Come ha rilevato Riquer si tratta di un gioco di parole non originale e che ritroviamo nella tradizione trovadorica ed anche nel Cligès27. Meno scontato è però il ripetersi della formula con leggere variazioni nel giro di poche pagine e il suo fissarsi come uno dei luoghi di riconoscibilità del romanzo. Questo del mal de la mar è, insieme ad altre formule ricorrenti, di sapore paremiologico, come del bo tria hom lo millor, donzella nua i crua28, o altre, costituisce infatti un tratto che individua la narrazione e le conferisce uno spessore di stile. È cioè questo il luogo in cul si ribalta il comportamento aulico dei parlaments e delle indicazioni retoriche rielaborate quando non direttamente plagiate, dalla valenciana prosa di Corella. Si tratta perciò non di frammenti di discorso con scarso rilievo, ma di autentici indicatori delle intenzionalità del testo. Talvolta convene rileggere per intero la sequenza della replica del gioco di parole dinanzi ad un pubblico più ampio, composto non più dal solo Ricard, ma da un gruppo di interlocutori-spettatori, tra cul Carmesina. La presenza dell'amata sdrammatizza la situazione di sofferenza di Tirant, che gioca nuovamente le sue battute. Il carattere di scambio dialettico è esplicitamente rivendicato dalla Princesa che esalta le sue abilità nella partita:

Dix Tirant:

__Senyor, la majestar vostra deu saber que tot lo meu mal és de mar, car los vents d'aquesta terra són més prims que los de ponent. Respòs la Infanta ans que l'Emperador parlàs:

__Senyor, la mar no fa mal als estrangers si són aquells que ésser deuen, ans los dóna salut e llonga vida __mirant tostemps en la cara a Tirant, sotsrient-se perquè Tirant conegués que ella l'havia entès. L'Emperador ixqué de la cambra ab lo Capità parlant, e la Infanta pres a Diafebus per la mà e detingué'l e dix-li:

__De les paraules que em digués ahir no dormí en tota la nit.

__Senyora, voleu que us diga?, nostra part n'havem haguda. Emperò molt reste aconsolat com haveu entès a Tirant.

__¿E com pensau vós __dix la infanta__ que les dones gregues sien de menys saber ni valor que les franceses? En esta terra bé sabran entendre lo vostre llatí per escur que el vullau parlar.

__Per ço, senyora, és major glòria per a nosaltres __dix Diafebus__ praticar ab persones qui sien molt enteses.

__Per avant ho veureu __dix la Infanta__ en lo praticar, e veureu si coneixerem les vostres passades.29



A questo punto le inappetenze30, di cui partecipa la stessa Carmesina31, gli inutili interventi dei medici32, e le buone parole di Diafebus33 si iscrivono tutti come complementi di una casistica che situa il Capità e la Princesa come la coppia protagonista del libro, predisponendo gli esiti del racconto nell'appagamento del loro desiderio di congiungimento e lasciando fuori dalla portata del romanzo ogni episodio indotto che travalichi le biografie dei protagonisti. È il mal d'amore a coron are il destino e il ruolo del personaggio principale; grazie alla malaltia questi può infatti superare le sue abituali performances di campione sportivo o di puer senex. La nuova avventura interiore nel conferirgli duttilità negli ideali gli garantisce anche complessità morale e psicologica, come prova ad un certo punto quando nel mettere a confronto le sue imprese cavalleresche, sempre vittoriose con la «sconfitta» ora ad opera di una tenera fanciulla, l'unico esempio concreto che rammenta è il combattimento con il signor di Villesermes34. Questi, si ricordi, è il cavaliere invaghito della Bella Agnès che, folle di gelosia perché Tirant ha ottenuto dalla dama il dono del fermaglio e l'onore di sfilarglielo dal seno (altre pomes se non proprio pometes), quasi ammazza il nostro eroe in combattimento. E Tirant in quella occasione sfugge a sicura morte solo grazie al calore delle vesti e pellicce che la Bella Agnès sacrifica sul corpo dell'eroe svenuto. Non è difficile dunque stabilire i collegamenti d'uopo tra cor, pneuma, mutació dels aires, freddi improvvisi più che gel e questo mal dels aires de la mar che colpisce il personaggio e che, convertito in mal de costat vora d'un riu, mette fine alla storia.

Ma prima di pervenire al finale, conviene riprendere brevemente le fila del discorso delle interconnessioni tra intreccio principale, che abbiamo visto rinsaldarsi nell'eroe di cui si descrive l'elan vitale, e il gruppo nutrito di personaggi che lo incontrano con le loro storie e le loro pulsioni. Naturalmente rammenterò qui solo qualche episodio tra quelli correlati al motivo erotico e ai vari effetti che Amore determina in situazioni e rapporti.

Prima di ogni altro è lo sguardo. Come si è visto, tramite gli occhi è avvenuto l'incontro tra Tirant e Carmesina. Lo sguardo, però, nel corso dell'azione si sdoppia e si riflette: si pensi alla bellissima scena del bagno quando l'oggetto da mirare è osservato parallelamente dall'amante e dalla sua intermediaria. Il modello distorto, anche se non irriconoscibile, è quello dell'occhio che a Lesbo oscilla tra cupidigia e invidia dell'altro. Tuttavia una drammatizzazione dell'esclusivismo erotico è assente dall'orizzonte di attese dei personaggi. Ne è buon esponente il manifestarsi del desiderio nell'Emperador. Si tratta di un desiderio di amori ancillari sui quali ha facile gioco dialettico l'Emperadriu che se ne burla («Guardau que jamés morí dona ni donzella de joc d'esplanissades»)35.

Ma a sua volta il parodico si riflette sul comportamento dell'Emperadriu quando, in procinto di incontrarsi con Hipòlit, è colpita anch'essa dai mali d'amore e l'intervento dei medici risulta inappropriato e fallace36. Ma l'indizio essenziale per la ricostruzione di questo reticolato che assume per buona la cultura medica classica, ripresa secondo la vulgata medievale e rinfrescata dalle tendenze nuove e laiche, è nell'episodio della diagnosi dei mall di Estefania dopo la notte d'amore con Diafebus. Vi troviamo l'indicazione della perniciosità dell'atre del riu, il suo collegamento con la consumazione del rapporto sessuale completo e il riferimento alla dottrina medica per mezzo dell'auctoritas: il tutto condito dalla arguzia e salacia di Plaerdemavida:

__Ah, Santa Maria val! __dix Plaerdemavida__ Digues, Estefania, quin és aqueix teu compon? ¿Què és lo que et fa mal? E jo iré als metges que vinguen per dar-te salut, aquella que tu volries per a ta persona.

__No cal __dix Estefania__, que lo nieu mal tost serà guarit, ca no és sinó dolor de cap: anit ab l'aire del riu m'ha fet mal.

__Guarda __dix Plaerdemavida__ què dius, que gran dubte serà que no muires. E si mors, la tua mort serà criminosa. Guarda bé que no et facen mal los talons, com jo haja oit dir als metges que a nosaltres, dones, la primera dolor nos ve en les ungles, aprés als peus, puja als genolls e a les cuixes, e a vegades entra en lo secret, e aquí dóna gran turment e d'aquí se'n puja al cap, torba lo cervell, e d'aquí s'engendra lo mal de caure. E aquesta malaltia no et penses que vinga sovint, segons diu lo gran filòsof Galièn, metge molt subtil, que no ve sinó una vegada en vida, e per bé que sia mal incurable, no és mortal, mas ha-hi molts remeis qui ajudar se'n vol. Aquesta mia epistola és bona e verdadera, e per ço no deus haver admiració de mi si conec les malalties, que si em mostres la llengua jo et sabré dir lo mal que tens.

Estefania li tragué la llengua. Com Plaerdemavida l'hagué vista, dix-li:

__Jo renegaria de tot quant saber mon pare me mostrà estant jo en son poder, si tu no has perduda sang aquesta nit.

Respòs prestament Estefania:

__Veritat dius, que del nas m'és eixida.

__Jo no sé si és del nas o del taló __dix Plaerdemavida__, mas sang haveu perduda, e per ço poreu ara dar fe de mi e de la mia ciència, que lo que jo diré serà veritat. E si la majestat vostra, senyora, volrà que no us recite un sommi que he fet esta nit, jo seré contenta, ab protestació que si diré alguna cosa qui agreuge l'altesa vostra, que lo perdó no em sia denegat.

La Princesa havia pres molt gran plaer en lo que Plaerdemavida havia dit, e ab grans rialles li dix que digués tot lo que volgués, que ella li perdonava a pena e a culpa ab auctoritat apostòlica. E Plaerdemavida féu principi al sou somni en estil de semblants paraules37.



Resta un interrogativo da sciogliere: in un romanzo quanto mai attento ad illuminare con precisione tempi e luoghi dell'azione i sottili passaggi che abbiamo visto tra il remake della tradizione che vuole incatenati amori e morti eroici e le insinuazioni sostanziali che privano di una seria ideologia di riferimento i personaggi, e che anzi li reinvestono di ruoli parodici, non hanno finora definito i correlativi che presiedono e proteggono il doppio registro. Non credo di poter sviluppare appieno qui un'argomentazione che richiederebbe maggiori attenzioni, ma si può sen'altro accennare alla condizione con cui si svolge la trama del romanzo. Se ritorniamo al momento iniziale, quando Tirant scopre Carmesina e i suoi seni adolescenti, noteremo che ciò avviene grazie ad un intervento di luce indotta. L'eroe penetra nella stanza in cui l'Infanta «estava gitada damunt aquell llit». Tende abbassate e finestre chiuse rendono cupa l'atmosfera, afoso l'ambiente e impenetrabili, anche con l'ausilio degli abiti neri, i corpi. Tirant prima con luce artificiale («una antorxa encesa»), poi facendo aprire le finestre conquista la luce e, con la luce, la visione paradisiaca. Eppure senza «les finestres tancades» Carmesina non si sarebbe mai slacciata, «mostrant en los pits» le meline destinate alla cattura dello sguardo amoroso38. L'opposizione luce/ombra e quella correlativa chiuso/aperto hanno un'evoluzione significativa e plurisemica. Ad esempio sono punizione per Tirant e suo «raffreddamento» ad opera di Plaerdemavida quando questi si è reso colpevole di indecisione39. Ma l'ombra, l'ombra che discende dai tarongers del palazzo imperiale, ha il ruolo benefico di coprire i baci che Tirant e Carmesina si danno sotto il naso dell'Emperador a suggello della loro promessa di matrimonio segreto40.

Nel testamento dettato prima di morire Carmesina ordina che le sue spoglie mortali siano sepolte con quelle di Tirant e lascia erede universale la madre. Per quanto attiene all'eredità sarà presto detto l'uso che l'Emperador ne farà a favo re di Hipòlit, complice lo stesso testamento di Tirant che, a sua volta, ha però ordinato di essere sepolto in Bretagna. Si conferma così il doppio registro: da una parte il motivo tristaniano degli amanti ricongiunti mel sepolcro, dall'altro l'istanza parodica assicurata dalla fortuna del famulus. Una fortuna di cui il Tirant «no recita, ans ho remet a les històries qui foren fetes d'ell»41.

Il premio per il dovere compiuto, nell'investire un successore o nel promettere una continuazione, è perciò forse proprio nella affermata, ma non praticata, possibilità della Segunda Parte. Non è infatti scontato che il romanzo o la vita debbano sempre avere una ineluttabile continuazione.





 
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