Selecciona una palabra y presiona la tecla d para obtener su definición.

  —51→  

ArribaAbajo Quattro inediti di Benito Arias Montano sulla questione sacromontana (1596/1598)

Daniele Domenichini


Universidad de Pisa

In un articolo apparso una quindicina d’anni or sono sulle pagine della Miscelánea de estudios árabes y hebraicos75, Darío Cabanelas offriva allo storico della cultura ispanica di fine Cinquecento un ricco corpus di lettere montaniane, fino al momento, ad eccezione di una, inedite. Tratte da original conservati nell’Archivo del Sacro-Monte granadino (legajo cuarto, 1.ª parte, ff., 391r-399r; 407r-409v; 480r-v; 670x-671v), esse riguardavano tutte l’affare dei libri plumbei di Granada, e il dibattito e le polemiche scaturite a seguito dei ritrovamenti della Torre Turpiana e delle cave di Valparaíso76.

  —52→  

Le direttrici dell’actuación montaniana nella vicenda emergono in maniera perspicua dalle dieci lettere pubblicate dal Cabanelas. In particolare, si coglie nell’epistolario del dotto di Fregenal una scoperta nota di scetticismo -nel senso pregnante del termine, una vera epoché nel giudizio storiografico circa l’autenticità delle lamine- unita ad una fondamentale ritrosia nel lasciarsi coinvolgere in un dibattito le cui implicazioni extra-teoretiche Arias Montano mostra a più ripre se di intravvedere con grande acribia e ancor più marcata ambascia. I pretesti delle «indisposiciones y edad» riempiono e suggellano le lettere all’arcivescovo Pedro de Castro Quiñones, dalla prima dell’aprile 1593 all’ultima pubblicata dal Cabanelas, e risalente al 5 marzo 1596. Tra le righe traspare, tuttavia, anche un atteggiamento di sostanziale ambivalenza da parte del redattore della Poliglotta, da un lato costantemente attento a «no admitir las cosas inciertas por ciertas y rendir [...] el sentido a las tales»77, e a raccomandare ad ogni pié sospinto «madurez, y certeza» nel giudizio sull’attendibilità dei ritrovamenti78; ma dall’altro interessato anche a lanciare, per questa via e proprio cogliendo questa occasione, precisi segnali in direzione dei corrispondenti granadini e, in prospettiva, di un uditorio ancor capace, in Ispagna, di tener desta la scintilla della critica filosofica.

Los adversarios de nuestra Iglesia católica, habiendo visto en algunos lugares dar fácil crédito a milagros no bien examinados y a otras cosas tocantes a la religión, toman ocasión y asa para afirmar que así fue en los días pasados...79.



L’eccessiva condiscendenza al bisogno naturale del volgo di veder miracoli e prodigi per ogni dove -una strada «ancha» e tutta in discesa, destinata irrimediabilmente a sfociare nella più vieta superstizione- era di fatto individuata da Arias Montano come il rischio più insidioso insito nella Riforma cattolica al di là delle dichiarazioni di principio che pure si adoperavano a smentire questa corrività; e come il punto di maggior   —53→   attrito, e sovente di rottura, nel dibattito con le Chiese separate d’Occidente.

L’articolarsi dell’epistolario con Castro Quiñones suona insistentemente il registro di questa prospettiva irenica -o, se si preferisce, ecclesiale. E questo mi pare, al di là dell’esame di merito sull’autenticità delle lamine (che pure ha la sua rilevanza) l’aspetto più sostanziale della questione; e quello che forse Cabanelas, dall’angolo dei suoi interessi di arabista e di storico del problema morisco, era meno interessato a sottolineare, presentando la sua edizione. Il fatto che, nella lettera parallela del 4 maggio 1593 a Luis de Pedraza, Arias Montano si astenga dal collegare l’episodio dei plomos a tutta quella ormai copiosa letteratura delle alguacias e degli jofores islamici o pseudo-musulmani, inserendolo piuttosto in un genere pseudoprofetico, per cosi dire, autoctono in varie regioni della Cristianità - gustosissimo è al riguardo l’aneddoto delle boutades di Mal Lara- può essere oltremodo indicativo circa gli effettivi obiettivi dell’argomentazione del nostro.

Quel che è certo -e la ragion d’essere di questa breve nota è tutta qui- è che l’episodio dell’intervento montaniano, qual è delineato da Cabanelas, necessita di qualche integrazione. La lettera del 5 marzo 1596 -con la quale si chiude l’articolo più volte menzionato- lungi dal concludere in calando il contributo di Arias Montano alla questione dei libri plumbei, manifesta -a mio avviso- una sensibile ripresa dei motivi di interesse montaniani all a questione -ovviamente nei limiti più sopra precisati; non si spiegherebbero altrimenti i larghissimi dettagli tecnici sui procedimenti di calcografia, e quella sorta di massimario paleografico- evidentemente offerto sponte auctoris -che chiudono lo scritto.

Ma vi è un altro particolare -questo di natura più documentaria che contenutistica- che induce a modificare parzialmente il giudizio del Cabanelas sul disimpegno montaniano; una resistenza che sarebbe stata tenacemente perseguita, anche a dispetto della Cédula reale del 9 agosto 1596, che metteva la riconosciuta perizia orientalistica del nostro a disposizione dell’ordinario granadino, per la «interpretación, y declaración de los dichos libros [plúmbeos]»80.

  —54→  

Nel legajo segundo dell’Archivo sacromontano (ff. 33v-39r; 65r-66v; 154v-156r) e -in copia ottocentesca- nel manoscritto Egerton 442 del British Museum (ff. 109r-118r), sono conservate quattro lettere montaniane a Castro Quiñones, tutte in data posteriore a quella con la quale Cabanelas aveva concluso la sua rassegna documentale.

Le nuove missive non modificano -ed anzi, in certa misura confermano e corroborano- il giudizio sostanzialmente negativo che Arias Montano aveva espresso, sull’intera faccenda, già pella lettera del 4 maggio 1593, allora limitandosi alla questione del pergamino. Mi pare tuttavia innegabile il loro valore documentario; e ciò per una serie di motivi legati, in primo luogo, alla loro cronologia. Esse tutte seguono, come si è già detto, la Cédula del 9 agosto 1596, e costituiscono -per cosi dire- una patente violazione alla stessa; le ragioni -meglio sarebbe dire: i pretesti- che ostano alla jornada granadina di Arias Montano si fanno, in queste ultime missive a Castro Quiñones, vieppiú pletoriche e, nelle parole del redattore della Biblia Regia, cogenti: una incoercibile ipocondria, un catarro che non lascia sperar nulla di buono, la fretta di ripartire manifestata dal messaggero incaricato di riportare la risposta, una modestia e una sconsolata coscienza dei propri limiti intellettuali che sfiorano, in non rare occasioni, l’autodenigrazione, tutte contribuiscono a risospingere fuori del proscenio il tanto richiesto e sollecitato contributo montaniano alla vicenda81. Certo, in ciò Arias Montano poteva aver buon gioco di una statuizione che, più si moltiplicava in quantità,   —55→   minar spessore istituzionale e minore efficacia finiva con l’attingere i due brevi papali che, nel giro di quindici giorni tra il settembre e l’ottobre del 1588, avevano dapprima congelato e quindi rimesso in funzione la macchina delle calificaciones, l’oggettivo contrasto tra il breve di Clemente VIII del 15 gennaio 1596 -con il quale si proibiva con inconsueta acrimonia verbale la manifestazione di qualsiasi opinione, favorevole o contraria che fosse, riguardo all’autenticità dei plomos- e la Cédula dell’agosto del 1596, garantivano nei fatti il persistere di una di quelle situazioni di incertezza normativa nella quali il tempo lavorava per l’indeciso e per il recalcitrante; una di quelle temperie fluide nelle quali l’ultimo Arias Montano non solo poteva benissimo sopravvivere, ma anzi si muoveva -per cosi dire- come nel proprio elemento naturale82.

Ancor più, le lettere del 10 novembre 1596 e del 30 aprile 1597 seguono molto da vicino le Juntas granadine rispettivamente del 28 settembre 1596 e del 21 febbraio 1597, dalle quali era emersa con incontrastato vigore la tesi dell’autenticità di tutti i plomos fino al momento dissepolti. Pedro de Castro, scrivendo ad Arias Montano all’indomani di entrambe le Juntas -e in previsione di una finale Junta de calificación già fissata per il settembre del 1598-83 intendeva evidentemente forzare i tempi, strappando un qualcosa di simile a un’adesione ad un grande indeciso (come doveva apparire agli occhi dei partigiani dei libri) del calibro di Arias Montano.

Si coglie, tra le righe delle risposte montaniane, una certa impazienza del presule granadino nell’allegare tanti pareceres favorevoli alle lamine, e nell’attendersi dal suo illustre corrispondente, finalmente, un segnale di assenso a quella risoluzione che, «todos conformes», i componenti dei collegi granadini avevano espresso. Ma Arias Montano è, anche in questa occasione, homo pro se, che come il suo indimenticato modello roterdamense sa riaffermare le esigenze del proprio libero giudizio, senza peraltro sconfessare chicchessia. Bene ha fatto Castro Quifones a differire -con «prudencia [...] y con grande madurez»- la conclusione definitiva del negocio, e bene farà a considerare tutti gli aspetti   —56→   di esso- quelli latenti non meno di quelli palesi. Riguardo a questi, Arias Montano non può che esprimere un modesto parere («... profeso ser no más que un pobre estudiante deseoso de ser enseñado, y no afecionado a opiniones [...] y conforme a esto jamás he sido curioso...»), confermando l’oggettiva difficoltà nell’interpretazione delle lamine -la mancanza di quelle che Arias Montano chiama, con voce tipicamente morisca, le šuklas vocaliche rende propriamente i plomos «cifra varia»- espezzando una lancia (ma senza eccessivi trasporti) a favore del traduttore ufficiale Alonso del Castillo («... siempre he tenido al Castillo por hombre sencillo y de buena voluntad, y no jactador de su habilidad»).

Ma è soprattutto sul versante delle implicazioni extra-filologiche che Arias Montano intende arrestare il proprio coinvolgimento nel negocio, anche a costo di spiacere un poco al suoi amici granadini («...de la razón de los milagros, y de su necesidad y fuerza en los tiempos antiguos, y en los nuestros, V. S. [...] terná la resolucion que conviene por su parte [...] en todo lo qual yo no tengo que decir...»). Le due successive lettere, del 3 dicembre 1597 e del 9 febbraio 1598, sono -in questo senso- assai esplicite. Innanzitutto si codifica, pero così dire, in cogente regola metodologica il conclamato disimpegno da un giudizio globale sull’episodio dei ritrovamenti, sulla meccanica del rinvenimento a catena, sul’significato’ di esso in chiave ontologica e soteriologica («...a todo he respondido en confuso quanto a lo principal, y solamente en particular en las menudencias...»). Per questo intenzionale, sensibile restringimento dell’orizzonte problematico («...palabra por palabra, como conviene interpretarse en rigor las cosas que tocan a religión o fee pública»), Arias Montano non si stanca di addurre buone ragioni, biografiche e non; ma non crediamo di andar troppo lontani dal vero richiamando, al riguardo, quel ricco dibattito sulla taqīyya, i cui termini non dovevano essere sconosciuti a chiunque avesse a cuore più ampî margini di libertó intellettuale84.

Tutta la discussione montaniana sull’interpretazione dei plomos si dipana cosí lungo questa direttrice; la frase di apertura della lamina in questione ricorda troppo da vicino la šahāda musulmana per essere at   —57→   tendibile quale testimonianza veterocristiana; le espressioni aljamiadas ricalcano pedissequamente i formulari delle invocazioni liturgiche islamiche, e tradiscono la loro origine moresca; il vocabolo ruhhu -perfettamente congruente al ruah ebraico- solo con un pesante apparato di inferenze tardoscolastiche («...por vía de glossa o conseguencias lógicas...») può essere caricato di significati teologici estranei all’impianto naturalistico dell’ideario semitico. Insinuazioni islamiche (o criptoislamiche) e ambagi scolastiche si saldano così -nella critica filologica montaniana- sotto il segno della neppur troppo velata contraffazione ideologica, e inducono -se mai vi fosse bisogno di un tal ammonimento- ad una sconfinata prudenza nel giudizio85.

In verità, non si può non rilevare qui come Arias Montano mostri di comprendere benissimo il ruolo di Castro Quiñones -il «santo sacerdote» del Kitāb tara’ij haqīq al-Anŷil- nel dar vote ad un blocco ideo logicamente e socialmente assai variegato, ma che poteva trovare nel giudizio favorevole ai libros un agglutinante efficace. Per i cristianos viejos l’episodio dei protomartiri autoctoni poteva accreditare, fondandola in un passato talmente remoto da apparire quasi mitico, una tradizione ecclesiastica che permetteva all’ultima città recuperata dai Re cattolici di ritrovarsi d’un coleo alle origini del Cristianesimo iberico, e di trasferire sul piano della realtà un desiderio onirico (diremmo oggi) di cristianità. Ma anche per i moriscos l’autenticità delle láminas avrebbe consentito di garantire la propria esistenza fisica e istituzionale; affermare che San Cecilio, primo vescovo della Spagna cristiana, era stato un arabo, poteva battere sul nascere quelle tendenze all’intolleranza, razziale non meno che religiosa, che andavano prendendo pericolosamente coreo nel tessuto della società spagnuola di fine Cinquecento;   —58→   e dava l’idea di poter in qualche misura legittimare, magari in un interstizio della societas christiana, la presenza delle frange dei nuevos86.

Quale giudizio dare dell’ atteggiamento montaniano su tali problemi? Da parte, cioè, di un intellettuale naturalmente incline al dialogo e alla tolleranza, aduso a impostare i problemi di coesistenza ideologica in termini di latitudo, di conclamata disponibilità e di consapevole accettazione, e che qui pare invece arroccarsi, in compagnia delle voci più viete dell’intolleranza, su posizioni di indifferenza, se non addirittura di chiusura, verso l’estremo tentativo morisco per autotutelarsi? La risposta può essere rintracciata, a mio avviso, ancora una volta nelle pagine che Pedro de Valencia, in una fase -successiva e forse ancor più delicata- del negocio delle lamine, dedicherà al tema riprendendo, anche in questa occasione quasi pedissequamente, gli spunti teorici lasciatigli in eredità dal maestro87.

L’obiettivo valenciano è qui palese; contribuire allo smantellamento dell’immagine esterna di una Spagna nutrita di miracoli, superstizioni, ciurmerie sacerdotali.

Aún los de dentro la casa, digo los cathólicos de otras naciones, nos infamarán como a ygnorantes y bárbaros, que con cosas tan improbables y mal compuestas nos dexamos’engañar. Dirán que somos tan culpablemente aficionados [...] [y] ridículos componendores por falta de ingenio y erudición...



Dietro al cattolici si intravvedono, nelle parole del più noto epigono di Arias Montano, la nazioni riformate -e non necessariamente in chiave polemica. Il futuro dialogo tra le Chiese separate- se mai dialogo potrà darsi -non potrà che impostarsi su un terreno di incontro sgombrato da tutti quegli adiaphora che impediscono un franco confronto.

  —59→  

Anche in questa occasione, Pedro de Valencia non fa che sviluppare conseguentemente i germi teorici disseminati nell’ultima produzione montaniana, portando a maturazione conclusioni, per così dire, implicite nell’impianto dell’ideario del maestro. Non ha senso risolvere un problema interno -la coesistenza di cristianos viejos e moriscos- ai danni e in pregiudizio di una non meno effettuale congiuntura internazionale -il dialogo, in effetti mai completamente interrotto, con i fratelli extravagantes88. Tanto più- e qui si tocca ancora una volta il cuore del ragionamento montaniano (e valenciano) -credendo di risolvere un (reale) problema di convivenza con una serie di (immaginari) conforti documentali pseudo-arcaici. La lezione della scuola montaniana è ancora una volta quella dell’onestà e del coraggio intellettuali; non ha senso aggirare le oggettive difficoltà nell’integrazione dei vari ceppi razziali ed ideologici, appigliandosi all’esile equilibrio offerto da una dozzina di plomos la cui attendibilità è tutt’altro che difficile contestare. In questo senso, si può dire che l’ancor inedito Tratado acerca de los moriscos de España -e quanto di montaniano vi fosse nella serrata argomentazione di Pedro de Valencia è, in certi passaggi, quasi tangibile- sia il naturale pendant della critica al plomos sacromontani; e la sofferta ricerca di un più razionale e solido terreno di incontro per le ideologie compresenti nella società spagnuola, a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo.

Un’utopia? Dei songes philosophiques? Vorrei che fosse il lettore a rispondere a queste domande. Ma vorrei anche far rivivere per un attimo, nelle commosse parole di un formidabile apologeta morisco, un uomo di Chiesa che un secolo prima aveva iniziato, ultrasessantenne, a studiare la lingua araba, per annodare più saldamente la fila di un dialogo vitale, che già allora si avvertiva minacciato da ogni dove.

  —60→  

El arzobispo santo tenía muchos alfaquís y meftís amigos, y aun asalariados para que le informasen de los ritos de los moros [...] [y] holgaba que acompañasen el Santísimo Sacramento en las procesiones del día de Corpus Christi, y de otras solemnidades, donde concurrían todos los pueblos a porfía unos de otros, cual mejor zambra sacaba, [...][y], cuando decía misa cantada, en lugar de órganos, que no los había, respondían las zambras, y le acompañaban de su posada a la iglesia.

Acuérdome que cuando en la misa se volvía al pueblo, en lugar de Dominus vobiscum, decía en arábigo Y bara ficun, y luego respondía la zambra...»89.



  —61→  
(I)

O Señor, soy cierto en mi ánimo, y desseo que V. S. se persuadiesse assí, que ninguno de quantos criados, familiares y servidores tiene en todo el reyno es más aficionado a su servicio ni más desseoso de empeñarse en él que yo; aunque en facultad para poderlo mostrar por obras, puedo y devo dar ventaja a los que la tienen, conociendo ser la mía flaca. Y no poder yo haver hecho esta jornada no ha sido de mi voluntad sino de manifiestos impedimentos y los más de éstos en mi salud, porque las demás obligaciones que me atan, aunque son muchas en respeto de mi pobre persona, yo les hurtara el cuerpo por algunos días. Y en este particular de el descubrimiento religioso que en essa ciudad ha acaecido en tiempo de V. S., quisiera yo mui mucho servirle por lo que tengo professado y por ser el argumento de tanta importancia y calidad como V. S., conforme a su piedad y prudencia, lo tiene bien considerado, y con grande madurez diferida la conclusión de él, y consultado las summas authoridades de la cristiandad y muchos otros personages entre los quales reconozco que mi ingenio y juizio puede tener la comparación que una pequeña centella a la lumbre de el sol (que aun no puedo decir de mí que una centella mínima); y con esta consideración me he consolado, atendiendo a lo que por parte de V. S. y de la Iglesia se resolbiere, para aprender y seguirlo como discípulo mínimo.

Yo, Señor mío, profeso ser no más que un pobre estudiante deseoso de ser enseñado, y no afeccionado a opiniones en disciplina alguna de las que he estudiado sino a lo llano, claro, y puro de ellas, y conforme a esto jamás he sido curioso; que los antiguos llaman curiosos a los que procuran saber lo que no les toca. Lo que yo he trabajado ha sido preguntar e inquirir los principios y fundamentos de las materias y procurar de ver si conforman con la divina Escriptura, o con el sentido natural, o con ambas partes, por no hallar certeza en otra manera, y para esto del sentido he sido no curioso sino cuidadoso de ver y experimentar cosas naturales y artificiales, y en lo que a esto no tocaba, dejar la curiosidad para quien de ella gustasse. Para saber de veras conozco ser grande la ayuda de las lenguas, y alabo mucho y doi gracias a Nuestro Señor por las que por merced suya he aprendido, que yo reconozco quando me han aprobechado; empero también conozco que no está el fundamento de el saver en ellas sino en la naturaleza propia de las cosas que se quieren aprender; y sin éstas lo demás es adherente, o accidente sin su acomodada substancia. Y esto he escrito para testificar o publicar mi poca curiosidad, aunque no niego haver tenido algún cuidado en las cosas y disciplinas que he deprendido y puesto alguna diligencia en ellas, de cuyo fruto juzgará cada qual según su arbitrio o intento.

En la lengua arábica antigua he puesto la obra que me ha sido posible hasta entender los libros sagrados que están interpretados en ella, y para esto he tenido noticia de la grammática, como algún día se verá; empero en las demás disciplinas que en ella están escritas no he trabajado por falta de tiempo y de libros, y sobre todo por falta de buenos bocabularios, que no los ai entre nosotros, ni yo los he podido haver con diligencias; el pergamino que yo acá tengo sacado del que se dice haver sido hallado en las ruinas de la Torre, si es puntualmente sacado o copiado del original, no lo leerán quatro que entiendan la lengua sin variar en muy muchos lugares en grande manera, porque no solamente carece de juclas o haracas, que son las vocales (que esto no hace mucho negocio a quien está diestro en leer), sino, lo que más importa, está falto de los puntos substanciales de las letras consonantes, y por esto juzgo yo que hará adivinar a los yngenios, porque una mesma figura de letra con un punto dice una cosa, y con otro o otras otra, y puestas debajo tienen dibersa fuerza que encima, y por consiguiente diversa significación, y assí conviene tratar de él como de cifra varia. Y viendo yo aparte quatro yntérpretes, cada qual diría a lo que le ocurría y ninguno me podría   —62→   huir corma, porque tengo los fundamentos de la lengua, bendito Dios; y por esta causa no he dado noticia del modo con que lo tengo puntado, esperando a que salgan otros, y si los nuebe libros sean escritos en la mesma forma ternán o darán bien que hacer a diversos yntérpretes; y como no los he visto no di yo más de esto de ellos.

Es verdad tengo conocimiento en Gonzalo de Ayala médico, que por vía de comunicación en la lengua con un mi sobrino ha acudido a mi casa algunas veces, y assí mesmo Gerónimo de Alaba, que también cura según me dicen; y el Gerónimo de Alaba entiende menos de la lengua antigua que el Ayala, porque éste se ayuda de su ingenio y de que ha estudiado la medicina en latín y habla la lengua andaluza en que se crió, y el Alaba la africana moderna; ambos son faltos de bocabularios para entender los libros aun de su profesión, y ambos ignoran la grammática arábica totalmente, aunque el Ayala atina más a las interpretaciones por su ingenio, y lee y escrive la letra más liberamente, y sabe latín, y en español es mucho más ladino. Una sola vez hablé en corte al licenciado Castillo, y, aunque brevemente, entendí que tenía noticia de la grammática; no sondé hasta dónde llegasse más que en un verbo que en nuestras lenguas no admite passiva vox; viniendo a propósito dijo que en arábigo la tenía, y lo probó, y siempre he tenido al Castillo por hombre sencillo y de buena voluntad, y no jactador de su habilidad. De la razón de los milagros, y su necesidad y fuerza en los tiempos antiguos y en los nuestros, V. S., como principal prelado, terná la resolución que conviene por su parte, y havrá visto lo que diversos varones doctos y enteros pueden y suelen tratar y averiguar, y lo mismo de la authoridad de las canónicas escripturas; en todo lo qual yo no tengo que decir, sino remitirme a lo que se determinare, usando siempre de mi profesión y nombre de estudiante y discípulo, y singularmente de capellán y siervo de V. S. I., cuya persona, dignidad y casa Dios guarde en toda felicidad para su servicio.

De Campo de Flores, cerca de Sevilla, 10 de nobiembre de 1596.




(II)

En este punto reciví la de V. S. de veinte y uno del presente, con aviso de que respondiesse luego, porque el portador estaba de partida, y assí no puedo responder tan largo como quisiera y como devía al servicio de V. S. y a la gravedad del argumento de esta que me hizo merced de mandar se me escriviesse, monstrando desear que yo le serviesse en compañía de tantos y tan calificados calificadores quantos en esta carta se nombran, los quales refiere V. S. haver todos conformes dado su parecer o censura, diciendo parecerles doctrina revelada y dictada por el Espíritu Santo, y que sería mui útil a la Iglesia mandarse recivirla, y que extirpa todas las heregías de nuestros tiempos, y otras cosas de mucha importancia; y siendo ello assí tiene V. S. mui grande razón en estimar esta materia por negocio gravíssimo, el mayor que oy día tiene el mundo, y que quizás no le ha havido mayor en muchos siglos; y por tanto, haviendo llegado a tal punto y estado, confieso de mí que no me hallo idóneo ni merecedor de nombre ni subscripción entre tantos personages que todos en todo me hacen ventaja, sino entre aquellos que atienden la definición de la Iglesia cathólica y su cabeza y sus ordinarios definidores para seguir su doctrina y obedecer a sus decretos y estatutos, mayormente no haviendo yo visto ni savido por vía alguna substancia de lo contenido en los libros ni la verdad cónsona de sus traduciones ni otras circunstancias del estilo y frasis que ayudan e importan para la significación de las cosas y examen de los términos con que se significan simple o figuradamente en cada lengua.

Para quanto al desseo que yo tengo de servir a V. S. como a Señor mío mui antiguo, y la afección grande que siempre he tenido a essa ciudad y su sitio y temple, y   —63→   mucho más crecida desde que V. S. tiene la prelacía de ella, fuera para mí mucho regalo y contento gozar de ella por algún tiempo y de la merced de V. S. en su presencia, si no me huviera detenido como me detiene una accidental flaqueza que me reprime en tal manera el espíritu y vigor con que solía caminar sin reparar en trabajo ni en variedad de aires, aguas ni tiempos; porque estos días passados, queriendo dar una buelta a la Peña de donde avía hecho ausencia por quatro años sin salir de Sevilla o del retraimiento que tengo media legua de aquí desde que partí de este lugar, cobré un catarro pesadíssimo que me ha durado quasi tres meses y aún me tiene en continuo exercicio de pecho no sin recelo de perpetuárseme, del qual ni la edad ni el modo ordinario de alimentarme y curarme no me assegura; y es tanto que tampoco oso venir a la ciudad sino esforzado de alguna obligación, porque aun en esta mudanza de media legua siento notable estrañeza; y los más doctos y amigos médicos que me conversan me dan por más seguro regimiento el reposo y procurar aire libre como lo es el de mi retraimiento aquí.

Habrá quatro días que el veintiquatro Diego Núñez Pérez mi deudo (que yo estimo por hijo) me embió una carta a la heredad de un hermano suyo frayle agustino, que entiendo es prior en essa ciudad, con la pregunta a la letra que V. S. mandó se me escriviesse, tocante a los lejos de la huída a Egipto que se hallan en la impresión tercera del libro intitulado Monumenta humanae salutis. Y el dicho padre Fray Francisco Núñez, llamándola curiosidad, pide a su hermano me pregunte la significación; e yo respondí, en la margen de su misma carta, que no era yo author de aquel modo de lejos, mas fue fantasía de Crispino, pintor célebre, que fue el que ordenó y debujó las tablas en la tercera ympressión (las quales también se pusieron en la Biblia grande de Plantino encomendada a el Cardenal Archiduque) y este dicho pintor fantaseó que un rústico encaminaba a los comisarios de Herodes que salían en busca o de los que iban huyendo Israel, o de los Magos, mostrándoles el camino al contrario de por donde iban los que ellos buscaban. Y estas fantasías se permiten al ingenio de los pintores mayormente quando quieren diferenciarse de las ordenanzas que otros, o ellos en otra parte, han hecho, como éste lo hizo variando semejantes cosas de lo que Pedro Bocot havía ordenado en las tablas de la primera y segunda impressión, a las quales yo asistí o di la razón, de lo que se veía en la primera pintura; que las de Crispino se hizieron mucho después que yo salí de Flandes. Yo jamás uso salir de lo que hallo authénticamente escrito o que con certeza se puede referir a ello.

Guarde Dios a V. S. en toda felicidad para gloria suya y provecho de su Iglesia.

De Sevilla, treinta de abril de mil quinientos noventa y siete.




(III)

La que V. S. me hizo merced en mandar escrivir para mí en diez y seis de octubre reciví en primero de éste de mano del doctor Pérez Manuel, alcalde de corte, que la hubo por mejor recado hasta que yo torné de la Peña en donde me avía retirado el estío passado. Y de la mesma carta y de la comunicación del señor alcalde tengo confirmación de la mucha merced que V. S. me hace siempre, y perpetuo fabor que recibo por ser V. S. quien es, no haviendo en mí méritos ni servicios que puedan entrar en cuenta sino es tenerme yo y preciarme de su criado y capellán, y con este título y dévito suplicar a nuestro Señor bendiga y prospere la dignidad de V. S. y sus santos intentos, para gloria de su admirable nombre y honrra de sus santos, exemplo de las virtudes y piedad que en ellos resplandecieron y universal provecho de la Iglesia.

Quanto a lo que V. S. me refiere de la mucha diligencia que ha usado y pone todavía en la averiguación de las reliquias y libros que se han hallado en el monte Valparayso   —64→   de essa ciudad, bien estoy certíssimo del zelo de V. S. y de su juizio, prudencia y vigilancia en todas las cosas tocantes a su ministerio y a la doctrina y guarda de la grey que Dios le ha encomendado, que aun en las particulares y de menor momento o accesorias consta del cuidado de V. S., quanto más en las de tanta importancia quanta es la del presente acaecimiento en que espero que Dios, faboreciendo su verdad y la intención sencilla y libre de V. S. como de su ministro fiel, ordenará que se dé la resolución qual conviene, siguiéndose en esto el camino derecho de la divina escritura y de los concilios y cánones y la authoridad del Pontífice y su consistorio, con que ni quede lugar a opiniones ni contenciones ni pareceres de ingenios interesados, sino que todos obedezcan a la definición eclesiástica legítimamente decretada.

Obedeciendo como devo y haré siempre a lo que V. S. me manda, en particular de que declare lo que entiendo de los vocablos que en su carta vienen trasladados con sus mismos caracteres, diré con sencillez lo que siento, sin querer que mi dicho tenga más nombre ni crédito del que la verdad bien considerada le diere o quitare. La primera línea de las dos interpretadas dice, palabra por palabra, como conviene interpretarse en rigor las cosas que tocan a religión o fee pública: No Dios sino Dios Jesús espíritu de Dios. También digo de las letras del segundo renglón que no pueden decifrarse por las del primero, porque un mismo carácter sirve en éste diferentemente de lo que sirve en el primero, y no es de los caracteres promiscuos que se distinguen con puntos, sino de los de figura cierta y propria. Entiéndanme los que los descifraren. Lo que significan los quatro bocablos que están superlineados, alhaceu almutinu alcadigu alaminu, es: el verdadero, el prudente, el justo, el fiel. Todos estos quatros son arábigos, y los tres postreros tienen origen hebraica, como casi toda la lengua arábica la tiene, o grande afinidad; el primero, alhaceu, es peculiar arábico.

El ruhu, o por mejor exprimirlo ruhhu, que V. S. me manda interpretar, digo que es vocablo arábico derivado del ruahh hebraico, y el primitivo y el mesmo derivativo simplemente y (como dicen) en rigor significa spíritu y no substancia, ni alma, ni vida, ni natura, ni ser, ni de la mesma substancia y ser que el Padre, ni lo que dicen ser más significante, que la dicción árabe ebni, porque el ebni, o abni y su primitivo ben hebraico, significan lo que filius en latín, aunque nacen de otra razón que el filius latino. Y esto digo no por contender (que ni lo uso ni lo quiero) sino por entender. Y no sé yo dónde se hallan hallado exemplos de esto en estilo y proprio en estas dos lenguas, ni en las afines, caldaica, chaldea y siríaca, donde ruahh oruhhu signifiquen propria ni translativamente todas aquellas cosa: alma, vida, ser, hijo charíssimo, natural, muy amado, de la misma substancia y ser que el Padre; empero algunas veces ruahh parece significar lo mismo que néphos, que quiere decir ánima, como en aquel lugar exivit spiritus ejus et revertetur in terram suam; empero, aun en tal exemplo conserva su propria significación de spiritus, que es el que sale y permanece entero fuera del cuerpo. En lo qual no alargo más, sino que por propriedad la significación ruhhu es spiritus, y las otras que le ahijan no son suyas, y si se las aplicare será por vía de glossa o consegüencias lógicas, por la qual, si me fuesse lícito, con mi corto ingenio me atrevería a sacar más y más y mui galanas ynterpretaciones que no cabrían en dos pliegos de esta marca ni en sus márgenes; empero no me permiten esto la ley de Dios ny su Evangelio, ni Santiago, que expressamente lo veda, ni la religión con que aprendí a tratar de cosas sagradas.

Sólo advierto (obedeciendo a V. S. como soy obligado) dos cosas; la una, que la formula la alah ila alahu es comunísima entre los árabes y moros, no solamente en sus devocionarios sino en otros muchos escritos, y casi en todas las monedas de oro y plata que se hallan de ellos; y sobre todo cada día dos veces, al alba y al anochecer, lo pregonan y cantan sus almudenes quando amonestan al pueblo que haga su lalai. Y no me acuerdo haver hallado semejante fórmula ni oydola de principi o de escrito alguno de   —65→   author o intérprete cristiano, antes he hallado expressamente citada e invocada la santisima trinidad, bicme alabu ualbinu ual ruhh alxuducu, In nomine Patris, et Filii, et Spiritus sancti. Ansí, no es particular misterio entre cristianos el que en la dicha fórmula se significa, sino común y usitatíssima confesión de los árabes, y principio de sus plegarias. Lo segundo, se advierta que el nombrar a Jesús ruhh ualahi, Spiritu de Dios, no parece lenguaje de los cristianos antiguos de la primitiva Iglesia, ni de los Apóstoles, porque ellos abiertamente lo llamaron y confesaron en hebreo con nombre de ben o bar; y assí mesmo en síryco y chaldayco, y en griego San Pablo y San Pedro y San Juan viós toú theoú, que todos llanamente quieren decir Hijo, sin metáphora de la significación ni rodeo de glossas o interpretaciones; y más parece el llamarlo ruhhu alahi al estilo de los árabes y a su doctrina que a la christiana y apostólica, y es la sospechosa porque, en su alcorán, Mahometo hace capítulo o zona expresso en que ynduce a Dios que reprehende a los hombres porque le dan hijo, no teniéndolo él sino siendo solo y único Dios, que no al otro, ni Dios, ni criador, ni salbador sino él. Y el mismo Mahometo dice que Moysén fue luz de Dios y Jesús fue luz de luz, que quiso entender luz abentajada sobre la de Moysén, y que fue en él spíritu de Dios. Assí que le admite y aplica el vocablo ruhhun, id est, Spiritus, y no admite el nombre abni, ni ben, ni otro semejante que signifique la misma natura; y como ellos dicen, la alah ila alahu umahamet arcol alahi, No ai Dios sino Dios, y Mahomed es mensagero de Dios. En la mesma proporción de fórmula dice este renglón: No al Dios sino Dios, Jesús spíritu de Dios, y con estos advertimientos verá V. S., si fuere servido, lo que será bien considerar en todo; porque los otros epíthetos de la segunda línea, alhhaku almubinu alcadiku alaminu, comúnmente los atribuyen a Alah los mesmos árabes en sus dichos. Esto es, Entendiente y conocedor de todo y de todas cosas, justo y fiel en sus promessas. Quisiera no ser tan prolijo en ésta si la conciencia y mi voluntad de servir a V. S. no me obligaran con esperanza (antes con certeza) de la paciencia de V. S. para oír esta y mayores proligidades.

Guarde Dios a V. S. felizemente.

De Sevilla, tres de diziembre de mil quinientos nobenta y siete años.




(IV)

La de V. S. de veinte y quatro del passado reciví a los ocho de éste, encaminada desde Xérez y por mano del doctor Pérez Manuel, alcalde de corte, y con ella la merced que siempre recibo con todas las de V. S., como de señor y prelado mío tan principal, y cuyo siervo y capellán yo soy. Con este título y nombre, y la obligación que ellos me ponen, he respondido a las que V. S. particularmente me ha embiado en razón de todo lo que se ha hallado en essa ciudad, assí en el monte de Valparaíso como en la ruina de la Torre, los años passados.

A todo he respondido en confuso quanto a lo principal, y solamente en particular en las menudencias que V. S. era servido comunicarme, como al conocimiento de algunas letras y caracteres de ellas, y a la interpretación de vocablos, y éstos pocos. En quanto a la historia general de todo lo acaecido y hallado, yo no he tratado jamás por letra ni de palabra con alguno; porque no teniendo certeza de todo, ni de las partes más importantes tampoco, jamás usé en materia alguna hablar ni escrivir aprobando ni reprobando ni calificando en otra manera. Y esta certeza no entiendo yo poderse tener por cartas particulares, quales me vienen algunas vezes de personas que fácilmente se aficionan o desafeccionan; ni por las nuebas que corren de una parte a otra perdiendo piezas, o aventajándose en piezas y circunstancias de mano en mano, ni del común pregón popular; sino sólo de la vista de ojos, con entera facultad de conocimiento de lo que se trata, en el qual, como yo no me estimo a mí mismo de bastantes partes, acostumbro   —66→   siempre oír y callar, dejando el juizio a cuyo es de razón, derecho y oficio. Y ésta es la causa de que ninguno con verdad puede testificar que yo haya jamás contradicho en parte alguna que se tratasse de esta materia tan grave y religiosa, ni tampoco haya respondido o hablado determinadamente o con porfía calificándola. Nunca Dios permita que en semejantes ocurrencias yo mude este propósito ni haga oficio de fiscal donde no puedo ni devo, ni de juez donde no tengo noticia ni authoridad ni otra obligación de serlo, ni tampoco de otra manera sea parcial; sino que siempre atienda al fin y término en que Dios manifestare la claridad y luz de las cosas y les declarare su estado y assiento y definición lejítima dada por sus ordinarios ministros, y entre tanto me esté quedo y callado sin atender lo que no es de mi cargo.

Por esta misma causa no he respondido a algunas cartas de amigos míos y de otros personages de essa ciudad. Y sólo me he hallado obligado a servir a V. S. en lo que mandaba escrivirme en cosas particulares de esta materia (como he dicho); y con esta sanidad y obediencia respondí en la próxima antes de ésta lo que sentía o me parecía sentía cerca de la forma de letras o muestra que venían en la carta que V. S., diciendo que si eran arábigas estaban en parte alteradas de las comunes; y assí me parecen todavía.

En lo del vocablo ruhhu, que dije significar de prima institución viento o espíritu (y en quanto a metáphora o paráphrase no traté cosa alguna más por vía de advertencia) escriví lo que yo havía hallado en la lección arábica del ben o aben en los escritores cristianos, y que comúnmente los moros por su frasi y doctrina llaman a Iesu o le intitulan alruhu alahi. Por tal advertimiento, que assí lo llamé, no hize yo definición de lo que contenían los libros, de los quales yo no sabía ni sé más que tanto quanto los vocablos referidos en la carta de V. S., porque no haviendo visto lo que los libros contienen, ni sus traducciones, ni lo que de ellos entienden las personas tan aventajadas y escojidas como V. S. ha comunicado, en ninguna manera conviene pensar que yo haya dado el advertimiento de cosa tan particular, para que por sólo él se censurasse el todo.

Tampoco di ocasión para que se disputase si Mahoma usurpó el título de Jesús llamándolo resuello de Dios, y lo tomó de los christianos o lo inventó él, sino dije que assí se intitulaba entre moros, y no hijo de Dios como los cristianos lo creen y llaman. Ni traté yo cosa de la trinidad ni lo demás que los libros contienen, como quiera que no los he visto, ni a sus ynterpretaciones. En todo me he remitido y remitiré siempre a lo que Dios y su Iglesia me enseñaren, siguiendo el consejo de Gameliel aprobado por el Espíritu Santo. Y conforme a esto suplico a V. S. no permita que yo sea nombrado parte en este negocio tan grabe y principal, que subrepuja mi suficiencia y facultad, ni contado en el número de sus contradicentes, ni en el de los que contenciosamente lo pleytean; pues ni lo uno ni lo otro puedo ser, no teniendo más particular ni general noticia de la que he declarado en esta carta; ni con verdad me puede alguno redargüir de otro oficio que háyame visto hacer acerca de esto, ni escrivir más que lo que V. S. tiene de mi propria letra.

Quanto a la muestra de los caracteres que V. S. me embía en papel aparte dentro en su carta, en que me avisa no entenderse allá de qué lengua sean, menos los entiendo ni conozco yo. Puesto que en ellos al algunas figuras que semejan algo a samaritanas, otras a las etiópicas y algunas otras a griegas, también algunas a arménicas, y unas parecen sencillas y otras compuestas en sílabas, y parte también grabadas en un bocablo. Quando pareciere lector o intérprete suplico a V. S. mande se me comunique algún enseñamiento de ello, y a mí en qué sirva a V. S. como lo deseo siempre hacer.

Guarde nuestro Señor a V. S. felicemente para gloria de su santo nombre y utilidad de su pueblo e Iglesia.

De Campo de Flores, cerca de Sevilla, nuebe de febrero de mil quinientos noventa y ocho.